Epitaffio impoetico per Alda


Oggi mi farò molti nemici dei molti amici che avevo. Ma mi sento di esprimere la mia perplessità, direi il mio turbamento, leggendo la prosodia che si allunga su Alda Merini: la trovo l'ennesima prova di quanto poco si legga la poesia in Italia, di quanto ancora sia radicato il cliché del poeta vertiginosamente separato dal mondo così da essere maledetto o maledettamente disadattato. E anche una prova di come l'ambiente culturale italiano sia esso stesso vittima della retorica della marginalità, almeno quanto sia invece attratto dalla pratica della visibilità. Questo non riguarda ovviamente la Merini, la sua vicenda umana e il suo modo di fare poesia, almeno fino a quando essa stessa non è diventata autoreferenziale. Riguarda ciò che si dice o si esalta della Merini.
Si riferisce al nostro modo inconscio di considerare la poesia come storia di esclusione, sfortuna e follia, come un surrogato linguistico di una sensibilità irraggiungibile nel mondo della storia e degli eventi. Di intimità scavata. Di un universo speciale. E si capisce: guai se qualcuno portasse una possibilità diversa nell'ordinato quotidiano, nella dimensione del fare e dell'avere che non dev'essere turbata. Sarebbe troppo, sarebbe persino politico.
La grande poesia, quella lontana dal Nobel effettivo o invocato, forse non incrocia quelle strade dei Navigli, quell'inquietudine, quel disordine che rimanda a se stesso. Mi piacerebbe consigliare la lettura di Luzi, Raboni, Fortini, Caproni anche se so di chiedere troppo. Ed ecco il mio piccolo epitaffio per Alda: spero che il suo posto nella letteratura derivi da qualche buon verso o non da ciò che d'impoetico c'era in lei.


Alberto Capece Minutolo