Pranzo di Ferragosto

Ultimamente, e con una certa insistenza, mi viene alla mente un’immagine, un’idea che mette in stretta relazione l’inizio e la fine, l’infanzia e la vecchiaia, la vita e la morte. Io non sono credente, il verbo credere anzi un po’ mi spaventa. Implica una delega, un affidarsi, un porsi nelle mani di qualcun altro che potrebbe approfittarsene a fini di potere. E in questo credo di essere confermato dalla Storia fin troppo. Io non ho idea di che cosa troveremo dopo la morte, non ho fede e certezze in paradisi, in ruscelli di latte e miele, in una beata accoglienza tra le braccia di fascinose Urì.  Meno che mai ritengo plausibili diavoli, fuoco e castighi. Certo, non mi dispiacerebbe che alla fin fine ci trovassimo tutti insieme felici e contenti, ma francamente non ritengo proponibile una rappresentazione del dopo fondata su un mio desiderio. Insomma, il mio verbo preferito non è “credere”, ma “cercare di capire” – e già questo a volte mi sembra uno sforzo disperato e sovrumano.

Ma che non sia del tutto da escludere, anche sul semplice piano della verosimiglianza psicologica, che di questa nostra vita esista un prima e un dopo, mi viene suggerito da una riflessione sulla condizione della prima infanzia e su quella dell’estrema vecchiaia, età per certi versi, al di là del pannolone e del pannolino, piuttosto vicine. Ambedue, ad esempio, sono connotate da un fortissimo attaccamento ai piaceri della vita: il cibo, il gioco, la musica e lo spettacolo, la danza e il canto, il racconto fantastico. Ambedue manifestano il loro attaccamento alla vita con una forza caparbia, imperiosa e a volte perfino capricciosa, attaccamento direttamente proporzionale al loro stato di fragilità, vulnerabilità, dipendenza. Il bambino rivendica il godimento della vita come chi a questa inclinazione fosse da sempre abituato, così come il vecchio reclama la sua porzione come chi vive e patisce del tutto innaturale e ingiusto il doversene staccare. Mia madre, che per tutta la vita ha rinunciato, religiosissima, ai piccoli piaceri in onore la Madonna, da vecchia nascondeva golosamente decine di caramelle sotto tutti i cuscini. 

Ma siamo nella perfetta e fisiologica biologia!, a questo punto esclamerà giustamente qualcuno. Sicuramente è così, ma a me l’immagine della nascita come arrivo da una condizione precedente e pre esistente, e quella della morte come fuoriuscita dalla presente vita per approdare a una dimensione diversa ma comunque a modo suo viva, confesso di non   trovarla così stravagante e campata per aria. Insomma, alla resa dei conti, non mi stupirei affatto nel constatare, dopo morto, una mia permanenza e una continuità sostanziale al di là del mutare delle sue apparenze e  forme. Siamo ovviamente a una percezione elementare e rozza, suggestiva quanto fantasiosa, ma io la preferisco alle costruzioni magniloquenti di certa teogonia perfetta, precisa, completa e definitiva. 

Queste riflessioni mi sono state suggerite anche dalla visione del film Pranzo di Ferragosto di Gianni Di Gregorio, che come minimo ha avuto il bel coraggio di mettere in scena una piccola storia che tiene però dentro una parte importante della nostra vita: la condizione della vecchiaia con la sua irriducibile voglia di vita, le sue malinconiche e precipitanti miserie, troppo spesso nascoste nel cono d’ombra dell’imbarazzo e della vergogna. Dai quarant’anni di durata della vita media di mille anni fa siamo passati agli attuali ottanta, con una infanzia/adolescenza che arriva a oltrepassare i trenta, e altrettanti finali di inesorabile declino. Insomma, le fasi della vita, le sue eterne e ripetute stagioni, si vanno prolungando in estensioni temporali fino a ieri impreviste. L’aldilà, per il non credente, resterà pure frutto di opinabile congettura, ma i cambiamenti dell’al di qua hanno da essere risolutamente presi in considerazione e affrontati con un pizzico di buon senso e saggezza. Un grazie a Gianni Di Gregorio, neo regista e neo attore di età piuttosto matura, per avercelo ricordato con uno sguardo pungente, disincantato e affettuoso.