Revolutionary Road

Che relazione c’è tra due persone che decidono di mettersi in coppia, sposarsi, mettere su casa e famiglia, fare figli, lavorare per provvedere al loro sostentamento, alle spese per casa, scuola, vacanze, viaggi, malattie,ecc. – e la tensione alla libertà, la vocazione all’autenticità di cui ciascuno di noi, specialmente da giovane, è naturale e irriducibile portatore? Quanto di quello slancio iniziale, di quella scintilla appassionata, di quella promessa solenne a se stessi di essere protagonisti degni della grandezza della vita continua e permane lungo un percorso coniugal-familiare, quanto concorre positivamente ad alimentare le scelte di lavoro, figli e relazioni sociali, e quanto invece di quella spinta viene via via accantonato, ridotto, spento e tradito?

I Wheeler di Revolutionary Road – Leonardo Di Caprio e Kate Wislet,  coppia di innamorati sul Titanic, riproposta qui in una involuzione tragica di un analogo avvio di grande innamoramento (sarebbe stato questo l’approdo di quella storia così lirica e romantica, se fosse sopravvissuta al naufragio?) – è una di quelle trentenni coppie ancora così vitali da introdurre allarme e turbamento nei vicini, nei colleghi, nelle famiglie del vicinato. E il film racconta appunto di quanto sia duro e difficile, se non impossibile, mantenere dentro l’innamoramento inizialmente forte e vivo di una giovane coppia la fedeltà a se stessi, al proprio progetto originario, e  resistere al successivo piano inclinato dei compromessi, delle rinunce, della omologazione, dell’accettazione delle regole e delle convenzioni alienanti e ipocrite – i bei vestiti, la bella casa, un  lavoro che si sperimenta totalmente privo di senso, l’obbedienza al capo padrone – che i modelli dominanti di questa società inesorabilmente impongono.

Insomma, cosa c’è dietro la coppia perfetta con due bambini carini nella bianca casetta di Revolutionary Road?  Cosa è rimasto degli ardori e dei sogni, della ricerca di autenticità e senso, dei progetti e delle ambizioni dei due ragazzi innamorati? In una passaggio rivelatore Leonardo Di Caprio ricorda il padre, anche lui impiegato nella ditta in cui ora il figlio lavora, che una volta l’anno lo catechizzava per un paio d’ore su cosa è la vita, quanto è importante il lavoro, e quanti sacrifici e rinunce richiede. E il figlio ricorda che a quegli sproloqui ogni volta la sua secca risposta interiore era: io non voglio diventare come te! E oggi, nel vivo del racconto del film, inserito negli stessi ambienti e ingranaggi del padre, il protagonista e la sua compagna riassumono in due parole la loro esperienza di lavoro, di relazioni sociali e di vita: un “vuoto disperato”. Ecco svelato cosa c’è dietro l’apparente, normale felicità delle famiglie nelle bianche casette di Revolutionary Road.

C’è nel film un personaggio non centrale, ma nell’economia del film invece sì, portatore di scompiglio per la scelta di restare fedele a se stesso, di non tradire se stesso malgrado tutto: malgrado i 37 elettroshock che gli hanno definitivamente bruciato ogni originario talento matematico. E malgrado una madre e un padre perfettamente normali, e quindi normalmente castranti, non rinuncia a esprimersi dicendo non ciò che gli altri vorrebbero, o si aspettano, o preferirebbero, ma quella che lui ritiene essere la - spesso urticante e sconvolgente - verità. A costo di far soffrire, di essere per questo odiato ed evitato, a costo di essere chimicamente e elettricamente percosso e sedato. Insomma, uno dei tanti poveri matti organici e necessari all’equilibrio delle buone e brave famiglie. Ebbene, l’acme di questo viaggio chirurgico nel cuore di tenebra della felice e moderna coppia americana è raggrumato nella scena in cui il portatore di urticante e scomoda verità, indicando il ventre della protagonista e il nascituro che contiene, e alle circostanze e al perché è stato messo in cantiere, esclama: non vorrei proprio essere al posto di questo bambino! Perché nelle coppie e nelle famiglie può anche accadere che un bambino nasca non sullo slancio e come frutto di vite così ricche e generose da reclamare nuova vita, ma come impedimento strategicamente alternativo a un troppo rischioso progetto di vita autentica. Il che, se permettete, è proprio un  paradosso ben tragico.

Insomma, tra i soldi, la carriera e il successo nel lavoro concepiti come moloch cui sacrificare tutto, così come imposto dai valori dominanti della società e fatti alla fine propri dal marito Di Caprio, e la scelta cui è invece propensa la moglie Wislet di una vita diversa, che dia spazio alla conciliazione tra più dimensioni e interessi, alla creatività, al pensiero laterale e alla creatività (Parigi!), nel film vince la volontà del marito. Ma la donna, principale sacrificata del meccanismo, si rifiuta e si ribella, sacrificando con un gesto da eroina di tragedia greca il nascituro e se stessa.

Nella scena finale del film è mostrata la coppia degli anziani genitori del figlio che all’accettazione del modello sociale imperniato sul vuoto di senso preferisce la libertà di parola, sia pure periodicamente bombardata dalla castrazione chimica ed elettrica. Lei parla e parla dicendo le solite stronzate auto rassicuranti a raffica, lui, in poltrona, viene inquadrato nel gesto auto protettivo di togliere all’apparecchio acustico la recezione del sonoro. Alla fine rimane in primo piano sullo schermo il suo sguardo vitreo accompagnato da un agghiacciante silenzio. A questo punto è arrivata la notte per la famiglia americana. Grande film, grande l’interpretazione degli attori, Kate Wislet su tutti, efficace la colonna sonora, malinconica,  inquietante, sottilmente angosciante e per questo in sintonia con il film.   Grande Sam Mendes, che ha così splendidamente completato il percorso avviato con American Beauty sul senso e il non senso, gli splendori e le miserie del vivere sociale americano.

Gian Carlo Marchesini