The millionaire

Questo è un film costruito in maniera molto abile, verrebbe da dire perfino geniale: la vita di un bambino di Mombay, orfano e miserabile, ma dalla vitalità irriducibile, veicolata e ritmata dentro la suspence di un gioco a premi televisivo di grande successo. Dentro il format dello spettacolo conosciuto e replicato in tutto il mondo, viene stipato e distillato tutto l’affascinante avventuroso peggio che può capitare a un bambino povero di Mombay – niente d’altronde che non abbiano già raccontato, anche verosimilmente e rispettosamente meglio, Charles Dickens in Oliver Twist o Mira Nair in Salaam Bombay, e chissà quanti ancora in altri libri e film. C’è la fame e la violenza, lo sfruttamento bieco e il gioco, la fratellanza, l’amicizia e il tradimento, l’amore che inizia e divampa quando si è ancora bambini e le mille difficoltà che ne impediscono il godimento. Tutto giocato con il ritmo giusto, la mescolanza scintillante del ricorso agli ingredienti canonici. Uno su tutti: un intero grande Paese spasmodicamente aggrappato alle serali vicende televisive di un ragazzo servitore di tè che, inaspettatamente e quindi per tutti i disgraziati catarticamente, procede tenace nell’azzeccare le risposte giuste fino alla vincita finale di ben 20 milioni di rupie. 

Sfruttamento e abbrutimento, ignoranza e miseria per molti e ricchezza sfondata per pochi? Per fortuna c’è Jamal, ragazzo bello, sincero e innamorato, che per un miracoloso concorso di circostanze – la forza irresistibile delle favole! – vince la stupefacente cifra, ritrova la sua bellissima ragazza, e alla fine, felici e contenti, tutti a esibirsi in uno  stravisto balletto di massa (Thriller di Michael Jackson) dentro la stazione di Mombay. La morale del film? Con la fortuna e il caso, il gioco e il destino, anche il sogno più difficile si realizza. Bello e facile, falso e consolatorio. Per me immorale. Partecipa della mentalità, della superstizione, delle credenze tipo madonna di Lourdes e padre Pio da Pietrelcina. I problemi individuali e sociali anche più tristi e gravi? Si risolvono non con l’assalto alla Bastiglia e al Palazzo d’Inverno, non con la conoscenza e la cultura, non con la solidarietà, la condivisione e la paziente lotta di massa (oh, Gandhi), ma con una bella botta di fortuna e la gente irretita e inebetita davanti ai televisori. Così la vita appare gioco berlusconiano di quiz mnemonici e pacchi mirabolanti – magari accompagnati in sottosfondo dalle canzoncine melense di Apicella e Arisa -  che la trasforma definitivamente in rutilante scacco. 

Il film ha vinto l’Oscar, ma è solo un tentativo ideologico ben riuscito e confezionato in modo furbo, in sintonia con il mainstream della cultura dominante, rivolto a persuadere che il miserabile stato delle cose presente può anche essere risolto da qualche pia illusione propinata da mamma televisione.

Gian Carlo Marchesini