Il sol dell’avvenire.     Il racconto di una generazione che ha perso.

Ieri sera ho assistito alla proiezione del film documentario Il sol dell’avvenire di Gianfranco Pannone e Giovanni Fasanella al Piccolo Apollo di Roma, specie di magazzino garage sotterraneo annesso all’Itis G. Galilei (vi si sono diplomati Marcello Mastroianni e Lucio Battisti) dove abitualmente si tengono le prove dell’orchestra multietnica di Piazza Vittorio. Il locale era stracolmo (trecento persone, molte in piedi, molte respinte per mancanza di spazio), un pienone di facce intensamente vissute e fortemente segnate di diverse generazioni di militanza politica attiva. A presentare il film i due autori, a commentarlo dopo la proiezione i registi Daniele Lucchetti e Carlo Lizzani, il senatore del Pd e presidente di Articolo 21 Vincenzo Vita, il giornalista francese, corrispondente dall’Italia di Libération, Eric Jozsef. 

Certo, colpisce ed emoziona assai assistere a un film in cui un gruppo di ex brigatisti cresciuti e vissuti a Reggio Emilia (Alberto Franceschini, Tonino Paroli, Roberto Ognibene, ecc.), famosi alle cronache della lotta armata degli anni Settanta, e anche successivi, si ritrovano convivialmente riuniti attorno al tavolo di un ristorante – lo stesso nel quale tutti loro parteciparono a una “settimana di studi” nel 1970 insieme a Corrado Simioni e Renato Curcio, esponenti del milanese Collettivo Politico Metropolitano, incontro che battezzò la nascita delle Brigate Rosse. Colpisce e sconcerta perché, a quasi quarant’anni da quell’evento, gli ultrasessantenni di oggi, allora intorno ai 25 anni, si mostrano nel clima rilassato e nelle vesti allegre di chi in realtà è stato protagonista di un pezzo importante e drammatico della storia politica italiana di quegli anni. E si mostrano oggi  in buona forma, lucidi, consapevoli, visibilmente desiderosi di assecondare le attese di chi – innanzitutto il regista del film – ha organizzato l’iniziativa e l’evento. Per oltre un’ora di proiezione, intervallati da spezzoni di filmati dell’epoca o dalla performance di un gruppo musicale che funge da coro che illustra di quelle vicende antefatti e retroscena, il gruppo di vecchi amici ex brigatisti concorre con impegno ed evidente piacere nel ricordare, ricostruire, precisare, correggere, integrare. Lì, intorno a quel tavolo, si incontrano biografia personale, memoria e storia collettiva, ma il clima è quello della rimpatriata, delle battute sorridenti e ammiccanti nei confronti di un pubblico che si sa benissimo essere lì, oltre lo schermo, pronto ad ascoltare, approvare o rifiutare, giudicare. Nelle storie raccontate attorno al tavolo c’è un solo passaggio in cui irrompe il dolore e il pianto, quello in cui, dopo avere negata risolutamente l’accusa di terrorismo per precisare che di  lotta armata si trattò, che rispetto al terrorismo è tutt’altra cosa, si riconoscono eccessi ed errori anche gravi: ad esempio l’uccisione in carcere di alcuni dei compagni di lotta perché, sotto tortura, avevano ceduto e parlato. Tutto il resto dei 78 minuti di proiezione è pieno dell’epos facondo delle rimembranze, dello sforzo pignolo della precisazione di dati, date e dettagli. Vedete – arriva dallo schermo un messaggio evidente – noi siamo persone del tutto normali, siamo sostanzialmente simili a voi: non pochi di voi avrebbero potuto essere qui al posto nostro, o comunque anche voi non eravate poi così lontani dalle nostre posizioni, dai sentimenti, dai pensieri e dalle emozioni di cui ci siamo nutriti. E in effetti il messaggio non è così campato per aria o infondato. 

Il regista Daniele Lucchetti, nel suo intervento, ha offerto una interessante chiave di lettura del fenomeno brigatista, quella psicoanalitica. Ci sarebbero stato una specie di obbligo morale e affettivo da parte dei figli allora ventenni, a prendere bandiere, ideali e testimoni direttamente dalle mani dei fratelli maggiori e dei padri uccisi nella lotta partigiana, che nelle province emiliane ebbe particolare presenza e virulenza. La Resistenza era stata abbandonata e tradita, bisognava riprendere la lotta e completarne il disegno e il senso, altrimenti fratelli maggiori e padri sarebbero morti invano. E  dopo la repressione del governo Tambroni, che a Reggio nel luglio del 1960 fece cinque morti, tale debito politico e morale delle nuove generazioni si rinnovò e attualizzò, rafforzando la determinazione di riprendere un percorso giudicato inaccettabilmente interrotto. 

Franceschini ricorda come lui e i suoi compagni, allora militanti nella Federazione Giovanile del Partito Comunista di Reggio, avendo partecipato a una manifestazione indetta a Rimini da alcuni gruppi extraparlamentari contro la presenza delle basi Nato in Italia, e trasgredendo così le direttive del Partito, furono dallo stesso (da Veltroni, allora già dirigente nazionale della FGCI) immediatamente espulsi. E anche questo contribuì in loro a determinare i loro approdi politici ed esiti armati successivi. Al proposito colpisce l’intervista fatta nel film a Corrado Corghi, in quegli anni segretario della democrazia cristiana emiliana, il quale racconta che anche lui allora si dimise da quell’incarico, in rotta con suo partito, per le stesse ragioni: riteneva infatti letteralmente inconcepibile la guerra degli americani in Vietnam, e oggi confessa che allora si sentiva molto più in sintonia con il giovane Franceschini che non con i dirigenti suoi dirimpettai del PCI di Reggio Emilia. (Ma d’altra parte, sulla questione del raddoppio della base militare americana di Vicenza, non abbiamo avuto il governo Prodi/Veltroni a favore, mentre i cattolici di base e i loro sacerdoti (vedi don Gallo di Genova) si sono dichiarati del tutto contrari? Dal che si ha conferma di come su posizioni di coerenza valoriale e intransigenza morale si incontrino storicamente spesso e volentieri minoranze interne di forze politiche e ideologiche altrimenti lontane).

Giovanni Fasanella, che alle BR e alla loro storia, e alla storia delle loro vittime, ha dedicato una decina di libri, ha raccontato nel suo intervento che l’unico che a suo parere ha realmente approfondito la lettura e la comprensione delle vicende delle BR in Italia è stato Giovanni Pellegrino, attuale presidente della provincia di Lecce, che ha presieduto dal 1990 al 2001 la Commissione bicamerale di inchiesta sulle stragi. Pellegrino ne ha ricavato una convinzione per la quale Partito Comunista e istituzioni dello Stato, specialmente dopo il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, hanno stretto un patto per chiudere la partita sul terrorismo e la lotta armata in Italia, perché ambedue, Stato e PCI, erano troppo implicati, in loro parti significative, il primo sul versante del terrorismo nero, il secondo sul versante Brigate Rosse. Molto meglio allora liquidare oltre un decennio di sangue addebitandolo a un manipolo di pazzi furiosi. In altre parole, una parte del PCI, una sua irriducibile anima, e una parte dello Stato, quella irrimediabilmente fascista, hanno continuato a farsi la guerra anche dopo la caduta del fascismo. Negli anni Settanta/Ottanta tale guerra è riaffiorata e ripresa sotto forma di guerra civile cruenta, sia pure a relativamente basso grado di intensità. (Vale la pena leggere al proposito, di Giovanni Pellegrino, La guerra civile, ed. BUR del 2005)

A conferma è intervenuto Eric Jozefs, il giornalista francese corrispondente di Libération, il quale ha sottolineato la ancora per nulla superata difficoltà in Italia ad affrontare seriamente, analizzare e capire gli ultimi cinquant’anni della sua storia, le vicende legate a fatti di violenza politica, alle stragi e al terrorismo in particolare. Ma l’Italia, a differenza degli altri Paesi democratici europei, è stata terra di confine tra Est e Ovest in periodo di Guerra Fredda, e ha avuto al suo interno il più grande Partito Comunista dell’Occidente. Il quale ha ritenuto, dopo la seconda guerra mondiale e la caduta del fascismo, di dover chiudere la stagione della lotta partigiana senza spingerla alle sue estreme conseguenze, deludendo così un vasto settore della sua stessa base. Le ragioni di stato e gli equilibri della Guerra Fredda imposero la messa in soffitta – al di là delle parole d’ordine e del linguaggio ufficiale – di valori, principi, ideali. Il ’68, i sommovimenti rivoluzionari in varie parti del mondo, l’invasione americana del Vietnam, le parole d’ordine di Che Guevara – accendere e rilanciare ovunque nel mondo molti Vietnam – fecero da detonatore. Il resto oramai è sufficientemente noto, almeno sul versante dei movimenti e del fallito tentativo brigatista di accendere in Italia la lotta armata. Il film, in effetti, può anche essere definito il racconto di una generazione che ha perso, e di come ha giocato la sua partita. Ciò che rimane fuori di scena – l’osceno – è la parte stragista svolta da parte cospicua dello stato: che ancora intossica e produce i suoi venefici effetti. 

Per concludere, Il sol dell’avvenire è un film del tutto importante perché consente di ascoltare, a distanza di anni, il punto di vista, l’analisi retrospettiva, le riflessioni critiche e autocritiche di ex brigatisti che, per avere praticato scelte di violenza politica cruenta, hanno pagato sulla loro pelle con anni e anni trascorsi in isolamento in carcere duro. A quando un film, un libro, un resoconto pubblico esplicito su fatti e misfatti di quei responsabili di stragi e terrorismo che hanno approfittato del loro potere istituzionale per portare a termine disegni criminosi? A quando un processo a dei responsabili in carne e ossa e sentenze conseguenti e pene adeguate? Chi si straccia le vesti (l’ex comunista e attuale ministro berlusconiano Bondi!)  perché oggi Franceschini e compagni, dopo avere pagato il loro debito, hanno libertà di parola e la esercitano in interviste e film contribuendo al pubblico dibattito, non dovrebbe a maggior ragione stracciarsele perché i responsabili e i complici di violenze altrettanto se non più gravi ancora non sono stati individuati e perseguiti, o addirittura  ricoprono alte cariche istituzionali? Sembra proprio che l’Italia sia un Paese di pavidi e ipocriti incapaci di fare i conti con la propria storia. Ma chi non affronta e scioglie antichi nodi, riconoscendo responsabilità, omissioni e colpe, non è costretto a riprodurli all’infinito? 

Gian Carlo Marchesini

P.s.: Una annotazione che ha a che fare con il linguaggio e la sua importanza, mai così forte come in questi casi e su queste questioni. Malgrado la perorazione di Tonino Paroli, che nell’intervista del film rivendica per la propria scelta politica la definizione di lotta armata, mentre rifiuta quella di terrorismo (“noi non abbiamo mai messo bombe per provocare stragi, né ucciso persone innocenti, né teso agguati a poliziotti inermi”), nelle note che si leggono alla fine del film e nel dibattito dopo la proiezione tutti, inclusi Pannone e Fasanella, insistono nell’attribuire ai brigatisti la qualifica di terroristi, sia pure rossi, per distinguerli da quelli neri. In effetti i brigatisti volevano (velleitariamente, la storia ha ampiamente dimostrato) aprire le contraddizioni all’interno della base del PCI per mostrare l’attualità e la necessità, negli anni Settanta in Italia, della lotta armata. Chi invece ha voluto terrorizzare è stato chi ha messo bombe su treni, piazze e stazioni senza per nulla recedere in presenza della morte di molti innocenti. Almeno per onestà storica e fattuale, oltreché politico-concettuale, la rivendicazione di Paroli andrebbe dunque accolta e rispettata…