Louise & Michel

Le operaie di uno stabilimento tessile di una cittadina francese si ritrovano di punto in bianco senza lavoro, licenziate, il loro stabilimento nottetempo vuotato delle macchine e di tutto. Si arrabbiano, giustamente. In dieci amiche la sera si riuniscono in una pizzeria per discutere sul da farsi. Cosa fare dei ventimila euro complessivi, duemila per ciascuna delle operaie ricevute come derisoria liquidazione? Louise, stazza enorme, occhi cerulei e sguardo di ghiaccio, quindici anni della sua vita precedente trascorsi in carcere per avere ammazzato un uomo insopportabilmente oppressivo, propone di utilizzare quei soldi per uccidere il padrone che le ha così vigliaccamente lasciate sul lastrico. Inaspettatamente, a una proposta così mostruosamente politically uncorrect, tutte le colleghe rispondono di sì. 

Questo è l’incipit folgorante e spiazzante di Louise & Michel, e quello che segue è lo sviluppo coerente. Tutto ovviamente iperrealistico, tutto surreale, tutto sviluppo di una evidente e lineare logica anarco-sovversiva. Tutto giocato su questa affermazione: i ricchi sono tali perché ladri. Bisogna in qualche modo impedire loro di esserlo, pena continuare ad essere derubati. Anche a costo di ucciderli. E così infatti la storia del film si sviluppa e si conclude: surreale e grottesca fin che volete, ma alla fine dei padroni responsabili del furto del lavoro non ne rimane in vita più nessuno. 

Il regista francese, nel dibattito che è seguito alla proiezione del film nell’Aula Magna dell’Università Roma Tre dell’Ostiense, spiega che il film è intenzionalmente giocato in chiave di provocazione simbolico-grottesca. All’inizio pensava anzi di lasciare nel film le morti vagamente suggerite e immaginate, poi ha pensato bene di giocare la carta del realismo esplicito:  non certo per suggerire la soluzione vera, sottolinea, ma perché vede intorno a sé, tra la gente, di fronte all’imbroglio e alla truffa generalizzata dei finanzieri e dei banchieri e dei politici loro complici, una tale rassegnazione e solitudine e depressione e disperazione, che ha ritenuto necessario non risparmiare il ricorso anche a una messa in scena così choccante.

Ascanio Celestini, che partecipa al dibattito, sottolinea che guai se il cinema e la letteratura non adottasse chiavi di lettura e rappresentazione estreme: abdicherebbero al loro compito. Sta di fatto che il film suggerisce soluzioni estreme facendole però interpretare da personaggi drop out e con caratteristiche altrettante estreme – analfabeti, mitomani, infelici spaesati, malati terminali. In questo modo la questione, di strettissima attualità, viene girata e giocata in termini irreali e favolistici: e infatti, tra una risata e l’altra, la carica eversiva del film ne risulta chiaramente attenuata e depotenziata. Ed è per questo che il film non solo non ha subito ostacoli dalla censura, ma in Francia ha ottenuto grande successo di cassetta. E se il film fosse stato interpretato da persone normali, né analfabete, né drop out, né malati terminali, sarebbe stato lo stesso? Non abbiamo già visto noi in Italia, negli anni Settanta e Ottanta, un film in cui i padroni venivano sequestrati e ammazzati senza ricorso e copertura di risate grottesche, senza comicità surreale? Quello che manca oggi non è un’organizzazione seria ed efficiente dedita alla eliminazione cruenta, quello che manca è una coscienza, una fiducia, una determinazione di massa: nel non farsi depredare prima, nell’impedire – democraticamente,  politicamente, anche con ricorrendo a metodi piuttosto duri e sbrigativi – ma non troppo! – che qualcuno faccia prevalere e imponga a tutti i suoi insaziabili appetiti. 

Contribuirà un film come Louise & Michel a far crescere la necessaria, larga e attrezzata determinazione? Speriamo proprio di sì. 

Gian Carlo Marchesini