Qualcuno con cui correre.    Il libro, il film.

David Grossman, in Qualcuno con cui correre,  racconta magnificamente vicende –  tradotte in film da Oded Davidoff:  peccato che il doppiaggio italo-romanesco sia semplicemente inascoltabile – che rimangono impresse a lungo, e ti lavorano dentro fino a trasformarsi in quelli che ritieni essere punto di vista e chiave di lettura dell’autore, che io mi sentirei di riassumere così. 

Nel mondo, oggi, le forze del bene – i giovani specialmente, idealisti pieni di vita e talento – sono prigionieri delle forze del male incarnate dalla gran parte degli adulti prepotenti e sfruttatori. Questi ultimi tengono incatenati talento, risorse e creatività dei primi ricorrendo al ricatto e alla violenza, ma specialmente grazie al potere che dà loro la droga, mezzo potente per irretire, fiaccare, soggiogare. La bellezza e la purezza dei giovani è oggi in mano – a Gerusalemme, in Israele, così sostengono gli autori, ma forse non solo – a una associazione per delinquere di adulti che li pretende piegati ai propri voleri, ai propri poteri, a uno sfruttamento mercantile totale a fini di massimo profitto. 

Ma come succede che la gran parte di quei giovani, i più sensibili, i migliori, abboccano e si arrendono alla rete dei malfattori? Perché, sostiene Grossman, non hanno trovato – a casa, a scuola, nelle istituzioni – risposta positiva e costruttiva al proprio desiderio di onestà e verità. E’ l’incomprensione, l’incapacità a comunicare, l’ipocrisia e il rifiuto sperimentato con dolore a rendere vulnerabili e tragicamente disponibili quei giovani, pronti a consegnarsi alle mire e alle spire di chi vuole impadronirsi e sfruttare la loro integrità e bellezza, i loro talenti creativi. E’ una società guasta e inetta nei suoi capisaldi, sperimentata come fallita e fasulla, a spianare la strada ai  disastri e alle derive della droga, all’abbandono e alla resa alle sabbie mobili dell’autodistruzione. Sola speranza è l’alleanza tra i pochi adulti rimasti onesti e integri (la indomita nonnetta rinchiusa da sola e da una vita in un convento, la generosa ed estroversa proprietaria di una trattoria alternativa, l’operaio saldatore in una officina), e i giovani che resistono alle sirene della droga: e anche così la lotta è durissima, la riuscita incerta – anche se nel libro, e nel film, la fine delle vicende raccontate, pur tra mille peripezie e sofferenze, è lieta e liberatoria.

La forza del libro/film sta nella totale appassionata immedesimazione che si coglie tra scrittore-regista e giovani protagonisti della storia.  Grossman specialmente, con la sua scrittura sapiente, ce li fa sentire e vibrare in tutte le pieghe segrete dei loro pensieri, sentimenti, emozioni. Ce ne fa proprio innamorare, perché anche noi corriamo a perdifiato con loro – guidati da Dinka, la simpaticissima cagna labrador -  per strade e vicoli di una Gerusalemme che, da città santa per eccellenza, qui ci viene invece presentata come città eccentrica e oscura, travolta da fiumi di eroina e crack, e di giovanissimi sbandati e confusi ma ancora capaci di rivolta contro una società che li vuole distruggere.  I ragazzi del libro e del film sono angeli decaduti, sprigionano il pathos degli dei ingiustamente esiliati e perseguitati. Noi ci appassioniamo alle loro terribili storie, tifiamo perché salvino la pelle dalle grinfie dei loro carnefici – il cui capo, paradossalmente, si chiama Pesach, cioè Pasqua. (Sarà un caso, ma anche in The Millionaire opera una gang che sfrutta i bambini indiani orfani o abbandonati, resi crudelmente handicappati al fine di impietosire meglio e indurre il pubblico all’elemosina…). 

Grossman sembra voler indicare la miseria e l’abisso in cui si trova il suo Paese dietro la maschera della forza militare esibita. Non lo dice con una denuncia diretta ed esplicita, usa il linguaggio del racconto romanzato, della metafora e dell’ allegoria  abitate da maschere di personaggi angelici o diabolici. Ma ciò che si è autorizzati a intendere è che l’intero suo Paese sia appestato e prigioniero di un tragico sortilegio, che sia l’intima fibra della Nazione ad esserne profondamente, catastroficamente intaccata. Grossman, tra l’altro, ha avuto un figlio soldato tragicamente ucciso dal cosiddetto “fuoco amico” – cioè dai suoi stessi commilitoni. La tragedia delle nuove generazioni israeliane, qualunque sia la forma di (auto)distruzione assunta, è immane. Specialmente perché la morte ti arriva da dove meno te l’aspetti, cioè dall’interno – da un (auto)sequestro rovinoso delle migliori risorse, dei propri ragazzi, la loro vita inclusa. E sotto varie forme: inclusa quella di altri ragazzi, i “nemici”, che altrettanto disperati si fanno saltare in un autobus, in un ristorante, davanti una discoteca.