Vincenzo Gemito, artista napoletano

Domenica scorsa, accolto dall’amico Mimmo appositamente giunto da Acquafredda di Maratea, mi sono regalato una gita a Napoli. I treni hanno giudiziosamente funzionato, a differenza di quanto il giorno dopo è capitato a viaggiatori che, sulla stessa tratta, sono stati costretti per un guasto a restare diverse ore bloccati sotto il sole privi di qualsiasi conforto. Al punto che qualcuno, disidratato, è alla fine svenuto. Il motivo della gita è stato offerto dalla mostra delle principali opere di Vincenzo Gemito esposte nelle magnifiche sale di Villa Pignatelli: originariamente costruita per Lord Acton, poi venduta ai ricchissimi banchieri Rothschild, infine rientrata in possesso del demanio pubblico e adibita a sede di convegni e a museo per le esposizioni d’arte. Per l’incantevole parco sul lungomare di Chiaia dentro cui è collocata, per le sale perfettamente conservate e magnificamente arredate, Villa Pignatelli già da sola meriterebbe una visita.

Vincenzo Gemito, così battezzato dalle monache perché, trovatello, la notte non dava requie con i suoi lamenti, è vissuto per oltre settant’anni a cavallo tra l’Otto e il Novecento. Adottato da una umile coppia popolana, cresciuto dentro i vicoli dei mastri artigiani, fabbri e falegnami, introdotto quindi e addestrato al disegno, alla pittura e alla scultura da validi maestri, ebbe un destino artistico tormentato e drammaticamente scisso. Di sua indole, ad ascoltare il suo demone creativo, l’oggetto e il modello su cui applicare il suo estro artistico era chiamato ad essere il corpo del ragazzo adolescente popolano alle prese con le sue attività tipiche di mestiere e di gioco: il pescare su uno scoglio, l’offrire acqua e bevande dissetanti per racimolare qualche soldo. In effetti, il percorso dell’esposizione delle sue opere al primo piano di Villa Pignatelli, concentra in una sala centrale, quella dove sono esposti disegni e sculture di bambini e adolescenti, il suo effettivo valore artistico. Il punto è che movenze e posture dei corpi ignudi dei ragazzi sono così esplicitamente e plasticamente sensuali, così guizzanti e solari nella loro offerta, da suscitare in certi ambienti, all’epoca della loro prima comparsa, scandalo e turbamento. Tra l’altro, per esaltare al massimo la plasticità versatile del corpo dei ragazzi, è noto come Gemito li facesse posare per ore con i piedi sopra un sasso insaponato… Lo scultore però rischiava così di connotarsi come artista innamorato dei ragazzi, e le sue opere, di conseguenza, destinate ad acquirenti, specialmente inglesi e tedeschi, affetti da quella passione particolare. Cosicché chi gli stava vicino, mercanti e galleristi d’arte specialmente, gli consigliarono, anzi in qualche modo gli imposero, di orientare la sua produzione diversamente. E in effetti le altre sale dell’esposizione ridondano di teste e disegni di vecchi nobili e principi, di soggetti e divinità mitologiche, in un trionfo di maestà regali che nella loro ieratica ripetitività annoiano. 

Per farla breve, Vincenzo Gemito non resse a lungo a tante pressioni e torsioni e, nel dissidio tra ispirazione profonda autentica e idiosincrasia bigotta di certa borghesia - che però costituiva parte fondamentale e decisiva delle sue commesse - finì per colpirlo una depressione e una melanconia così gravi da condurlo al ricovero in manicomio. La vocazione di Gemito era quella di cantare in forma artistica la vita autentica del popolo, affascinato dalle sue espressioni più tenere e intime, quelle in particolare dei ragazzi ripresi nel vivo dei loro giochi. Lo scontro con certa cultura ipocrita lo avvilì e amareggiò a tal punto da condurlo alla follia. 

Osservando alcune delle sue opere, e le fotografie che esposte in altra sezione riprendono l’attività dell’artista con i modelli in posa nel suo studio, si ha percezione esatta di come l’artista sia colui che, da una forma naturale che lo ammalia e ispira, ricava una trasposizione che di quella forma esprime ed esplicita l’intima bellezza, lo spirito e la poesia. Ad essere esaltate sono la creaturale gioia estatica che i corpi dei ragazzi apertamente esprimono, la tenerezza con cui l’artista quasi accarezza le forme dei loro corpi, le mani e i piedi così sproporzionatamente grossi, quei muscoli non certo resi turgidi dall’ottimo e abbondante cibo e da attività ginniche su prati e dentro attrezzate palestre, ma perché sollecitati e riempiti da una fatica quotidiana  precoce.

Villa Pignatelli e Vincenzo Gemito, il lungomare della riviera di Chiaia:  ecco le immagini di una Napoli eccelsa. Usciti dal godimento della splendida mostra, ci siamo incamminati sul lungomare verso la stazione ferroviaria. Era il mezzodì pieno, il sole splendeva alto, la calura era mitigata da una rincuorante brezza marina. In acqua, centinaia di bagnanti, ragazzi e giovani specialmente, si esibivano dagli scogli in acrobatici tuffi. Tutto sommato, a distanza di un secolo, rispetto ai tempi di Vincenzo Gemito lo scenario non doveva essere cambiato di molto. E’ stato sul rettifilo che porta alla Stazione che l’incanto si è rotto. A un certo punto, con la coda dell’occhio, abbiamo colto sul marciapiede opposto un agitarsi improvviso, un grido soffocato ci ha colpito l’orecchio. Una giovane donna era stesa a terra, un centauro si allontanava sulla sua moto agitando come trofeo la borsetta appena ghermita. Erano le due di una domenica pomeriggio, nessun altro oltre a noi sulla strada. Si è fermato un taxi che transitava, poi è sopraggiunta una volante della polizia. Il taxista si è incaricato di portare la ragazza ferita al pronto soccorso, la volante è partita alla caccia del mascalzone motociclista. Noi abbiamo proseguito verso piazza Cavour, l’animo turbato da quella irruzione violenta. Non bastasse, a peggiorare le cose, ci si è messo un energumeno apparso all’improvviso alle nostre spalle, evidentemente ubriaco, a seguirci a torso nudo lanciando rauche grida di minaccia. Abbiamo accelerato il passo, ci siamo rifugiati dentro gli spazi protetti della stazione. Mimmo è ripartito per Maratea, io ho preso il mio treno per Roma riflettendo su Napoli, la sua bellezza ancora fulgida, la violenza che la deturpa, Vincenzo Gemito che ancora oggi ne riassume emblematicamente la forza artistica immensa e l’intima ferita.

Gian Carlo Marchesini