Il dubbio

Qualche tempo fa, grazie a mia figlia, ho conosciuto in Francia, durante un gradevolissimo soggiorno in un angolo delle colline sopra Saint Raphael, una persona particolare. Quarantenne dinamicissimo, da diversi anni Valentino lavora a tempo pieno nella sede centrale di un movimento, chiamato Bon Fin, fondato da un saggio di origine bulgara morto qualche anno fa, che nel suo insegnamento ha messo insieme scelta per la non violenza e alimentazione vegetariana, ricerca costante di armonia e bellezza e fede nella reincarnazione, un insieme integrato di precetti riguardanti le scelte in ambito morale, sociale e individuale necessarie per un cammino di  ascesi e continuo perfezionamento. Con Valentino, originario di Bologna, abbiamo trascorso una serata conversando e confrontandoci sulle rispettive esperienze e storie. 

Tra le riflessioni ascoltate, una in particolare mi ha colpito. Nella vita – sostiene Valentino – tutti incontriamo persone che ci risultano istintivamente antipatiche, tanto che nei loro confronti proviamo una ostilità ai nostri stessi occhi esagerata. Anche se a spiegarlo razionalmente ci risulta difficile, quelle persone proprio non ci vanno giù. Per quanto mi riguarda – prosegue Valentino – io ho capito che la mia ostilità è in questi casi sostanzialmente legata al fatto che quelle persone, a ben vedere, possiedono caratteristiche e peculiarità che, per come sono fatto io, ho difficoltà ad accettare. Così, adesso, ogni volta che con qualcuno che incontro mi scatta questo meccanismo di avversione istintiva, subito mi chiedo cos’è che lui, per come è fatto, potrebbe insegnarmi, dalla quale cosa io mi sento però nel mio equilibrio minacciato e che proprio per questo rifiuto. 

Queste considerazioni di Valentino mi sono tornate in mente durante la visione del film Il dubbio, e credo a ragione. Il film racconta l’affiorare, il dispiegarsi e l’esplodere dello scontro tra due persone che più diverse non potrebbero essere. Si tratta di due religiosi, il prete di una parrocchia cattolica nel Bronx newyorkese degli anni 60, e una suora che di quella scuola è preside. E mentre il prete, superbamente interpretato da Philip Seymour Hoffman, ha del mondo una visione fatta di comprensione, gioia, compassione, la suora, magnificamente interpretata da Meryl Streep, riempie la scena con mimica e parole di una severità intransigente, di una disciplina e di un rigore intolleranti. La curiosa ed efficace definizione che a un certo punto il prete dà della suora suona così: “ suor Aloysious  è il campione perfetto di quelle persone che sono così crudeli da uccidere intorno a loro la gentilezza in nome della virtù”. La suora/preside sospetta il prete - sulla scorta di labili indizi, in assenza di prove, ma dichiarandosi rocciosamente certa della fondatezza delle sue intuizioni - di rivolgere attenzioni particolari a uno dei chierichetti che gli serve la messa. Ma ciò che in realtà quella suora odia del prete è esattamente quello che in lei difetta: una capacità di relazione empatica con i ragazzi della scuola, i suoi collaboratori, i parrocchiani, il mondo intero e la vita. La figura della suora è quella classica della anaffettiva repressa, fattasi monaca non per amore del prossimo e per serenamente servirlo, ma perché vedova precoce di un marito morto in guerra, quindi rancorosa e vendicativa. D’altra parte il prete è l’esatto opposto: ama il buon cibo e il vino, i dolci e lo zucchero – sono goloso, ammette con un disarmante sorriso -, le buone sigarette, la convivialità allegra, il gioco e lo scherzo. Ciò che agli occhi della suora suona intollerabile sono alcuni dettagli riassuntivi della sua personalità: le unghie lunghe e curate del prete, ad esempio, la fanno proprio inorridire.   Per questo lo deve distruggere. Ed è quello che tenacemente, nel corso della storia raccontata nel film, farà.

Per riuscirci userà l’arma dell’accusa di seduzione nei confronti di un dodicenne verso il quale il prete mostra in effetti particolare affetto. I film però non affronta affatto il tema della pedofilia, fenomeno diffusamente presente e praticato nelle scuole e nei seminari gestiti da religiosi: essa è semplicemente adombrata come pretesto per mostrare come la guerra distruttiva tra persone abbia origine nell’incapacità di accettare la propria parzialità e inadeguatezza, e di patire la diversità dell’altro vissuta non come possibile confronto potenzialmente utile al proprio miglioramento, ma come attacco intollerabile alla propria evidentemente precaria e mal costruita identità. Il che  suggerisce che due persone fortemente diverse hanno possibilità di convivere in pace se si rispettano mutuando una dall’altra le parti arricchenti e compensative. Invece succede che si odiano e distruggono perché ciascuna considera la propria peculiarità superiore e perfetta, quella altrui, una somma di disprezzabili iniquità. C’è da imparare, al proposito, dalla scelta fatta all’epoca dai nativi dell’America Latina, i quali offrivano agli europei conquistatori il cibo e le loro fanciulle in matrimonio, integrandoli così nelle loro comunità. L’esempio negativo viene invece dalle infinite vicende conflittuali tra israeliani e palestinesi, che si infliggono patimenti disumani invece che ben disporsi ad accettare e condividere mensa, usanze, risorse, letto.

Tornando al film, il prete e la suora avrebbero potuto diventare amici se nessuno avesse usato la propria peculiarità come arma da brandire in modo distruttivo: la suora tollerando e magari sperimentando lo zucchero nel tè, l’aroma di una sigaretta, un buon bicchiere di vino, lo scherzo e la risata. E  il prete a accettando di adottare dalla suora qualche tratto di sobrietà e temperanza nei rapporti e nei comportamenti - in effetti, per il suo ruolo istituzionale, forse un po’ troppo laschi. Ma spesso l’essere umano sembra preferire la strada del rifiuto del diverso, la guerra per la sua distruzione, piuttosto che il lavoro paziente nella curiosità benevola e nella attenzione, nella disponibilità all’apertura e alla integrazione. 

Bel film, Il dubbio: affronta nodi da sempre alla base di ogni convivenza tra umani. E lo fa avvalendosi dell’arte di due grandi interpreti, gli attori già citati, e della  sceneggiatura e regia magistrali di Patrick Shanley.

Gian Carlo Marchesini