Leader, teatranti e figuranti della nostra attuale scena politica.

Nichi Vendola e Dario Franceschini sono i “nuovi” leader della sinistra più interessanti perché appassionati, competenti, completi. Si sente e capisce che possiedono in misura ragguardevole la dote propria del leader: sono infatti portatori di una concezione del mondo, di un modello di società che propongono e trasmettono in modo serio e credibile, e a quel modello di società, a quella visione del mondo fanno venire voglia di partecipare. In questo si distinguono dalla quasi totalità del gruppo dirigente che occupa le nostre attuali scene politiche. Non è tanto o soltanto questione di abilità dialettica, di presenza e capacità nel tenere il discorso o di usare la ribalta mediatica. Trasmettono una adesione convincente a ciò che espongono, una credibilità autentica a ciò che propongono, perché si sente che loro per primi intimamente ci credono, e non si affidano invece, per essere persuasivi, a trucchi retorici e ad artifici dialettici. Ambedue possiedono una sorta di spessore tridimensionale che ha a che fare con una persuasiva percezione di coerenza tra il loro pensiero, il come lo manifestano attraverso le parole, la loro incarnazione possibile in azioni e fatti. In questo, dei due, ancora più autentico appare Franceschini, più diretto e concreto nel suo discorso, mentre Vendola a volte, nel tono e nel linguaggio, si lascia trasportare da un pizzico di enfasi di troppo, da accenti infervorati e dal ricorso a termini colti che possono disorientare e non essere da tutti pienamente intesi. Si direbbe che il linguaggio di Franceschini sia più capace nell’entrare in sintonia con l’interlocutore che ascolta, mentre Vendola è più teso ad esprimere al meglio il concetto, la visione che dentro gli preme. Diversi dei termini che usa hanno origine e natura filosofico-letteraria proprie dell’uomo colto, il che lo connota e onora, ma ne riduce anche il raggio di intellegibilità e comprensione. Il letterato colto non sempre riesce a tenere nel debito conto l’esigenza di raggiungere il più ampio risultato di ascolto e lettura. Franceschini si direbbe avere invece risolto questo problema al meglio.

Di Franceschini si sentono le radici emiliane, la concretezza e il pragmatismo, la solidità persuasiva della tendenza al concludere e al fare. Di Vendola, invece, colpiscono l’afflato visionario, la passione per l’utopia e l’urgenza di una spinta alla trasformazione sociale che a volte irrompono con accento alto e perfino profetico. A confronto, altri leader della sinistra (penso a D’Alema, Letta, Bersani, ma anche a Di Pietro, Ferrero e Diliberto) sono volonterosi e diligenti, preparati e a loro modo competenti, ma difettano proprio della peculiarità propria del leader che è quella di rendere attraente e credibile, specialmente in tempi di disorientamento e crisi come il nostro, la visione del mondo e il modello di società che promuove e a cui esplicitamente aspira. Veltroni era un altro di quelli capaci in qualche misura di trasmettere questa scintilla – penso ad esempio al discorso da lui tenuto al Circo Massimo -,  poi ha deciso per ragioni sue di passare mano. Prodi e Padoa Schioppa in questo erano e sono fortemente deficitari, troppo impersonali e tecnici, distaccati e freddi, e perfino un po’ altezzosi ed elitari: della serie, o mi capite e seguite, oppure peggio per voi.

I leader del campo opposto possiedono questa dote carismatica nel solo Berlusconi, nel senso che è il solo a trasmettere efficacemente e coerentemente, incarnandolo in parole, opere e fatti, il tipo di società in cui crede, l’impasto di egoismo e narcisismo, di sbrigliata e illimitata libido di potere e comando, di abilità furba e vitalistica nell’operare a vantaggio dei propri privati interessi. E nell’invitare a credere che questo modello e stile di vita siano quelli necessari, opportuni, a portata di tutti. Ciò che per molti italiani – la maggioranza? – costituisce un vero sogno, un irresistibile miraggio. Gli altri dirigenti della destra che lo attorniano sono ossequienti cloni, capitani di ventura di qualche esperienza tecnica, competenza parolaia e illimitata spregiudicatezza – in questo sotterraneamente ammirati e invidiati da non pochi politici sedicenti di sinistra -, pronti per una adeguata ricompensa a svolgere per il loro capo qualsiasi compito e servizio.  Portavoce e portaborse, luogotenenti e proconsoli, mestatori e mazzieri, sproloquiano antifone e nenie volte a intimidire, minacciare, manipolare, narcotizzare. I migliori lo sono nel senso che sanno piegare la parola a non importa quale torsione, la loro schiena a qualsiasi comando. Nel caso, non così ipotetico e peregrino, che il loro leader crolli e scompaia, è prevedibile che i più svergognati tentino la carta della conversione trasformistica – l’hanno fatto così tante volte! -, mentre i più orgogliosi potrebbero anche scappare in esilio, entrare in convento, o togliersi persino definitivamente e fisicamente di mezzo. 

Di Pietro merita una nota a parte. La sua peculiare cifra, la sua connotazione politica identitaria, stanno ancorate tutte nella sua origine di pubblico ministero principe della stagione di tangentopoli e di mani pulite. Il suo peso è tutto baricentrato e alimentato sul bisogno di giustizia efficace di quella componente sociale che soffre amareggiata l’elevatissimo tasso di corruzione, ingiustizia e impunità che caratterizza il nostro Paese. E così come di questo andazzo Berlusconi è sintomo e artefice, Di Pietro ne rappresenta ed esprime il rifiuto e l’esigenza di rimedio. Ma così Di Pietro vive di luce riflessa, e per quanto in questa fase sia utile e anzi necessario, rischia di esserne parte costitutiva, dipendente e transeunte. In un Paese normale Di Pietro non avrebbe più molto senso.

Restano in qualche modo fuori del coro Fini e Casini, che da una vita si allenano ad assumere il comando in un esercizio di leadership che oramai si concentra tutto nella maschera di giovani eterne promesse oramai appesantite nella mimica e nella voce, nella risolutezza affettata e nella solennità della recita paludata. 

Gian Carlo Marchesini