Il nastro bianco di Michael Haneke.

Sulle origini e forme del male in un tranquillo villaggio rurale.



Il signor Barone, Il signor Intendente, Il signor Pastore, il signor Dottore, Il signor Maestro, Il signor Padre e la signora Madre, queste le figure emergenti e i ruoli dominanti in una comunità di contadini laboriosi, di bambini e ragazzini che giocano e frequentano diligentemente la scuola, aiutano in casa e nella stalla, di giovani che si spezzano la schiena nel lavoro dei campi insieme ai loro genitori, e flirtano con le ragazze nelle feste dopo il raccolto. Il film inizia mettendo in scena la vita di comunità di un villaggio tedesco negli anni che precedono immediatamente la prima Grande Guerra. Ma via via che il racconto procede, ecco accadere incidenti strani, sempre più inquietanti e gravi: il medico che rientra a casa a cavallo dopo una visita crolla a terra per una fune tesa ad altezza delle zampe dell’animale, e si frattura le braccia; il figlio piccolo del Barone scompare all’improvviso e viene più tardi ritrovato pestato a sangue; la moglie di un contadino precipita e muore dal tetto di una segheria dove imprudentemente viene mandata a ripulire; il figlio ritardato della cameriera a servizio nella casa del medico viene ritrovato legato a un albero, anche lui orrendamente torturato. E mentre la storia procede registrando questo crescendo di orrori, ognuno di essi serve al regista per scoperchiare retroscena e segreti vergognosi che segnano la vita di molte delle famiglie. Dietro la facciata normale, dietro le forme belle dei riti e degli inchini, dei salmi in chiesa e delle preghiere in casa prima e dopo i pasti, ardono le fiamme dell’ostilità, delle invidie e delle vendette, delle rivalità e del disamore. Ogni famiglia nasconde qualche segreto, ogni coppia si trascina stancamente tra disgusto e rancore spesso dissimulati dietro frotte sciamanti di bambini apparentemente sereni e ingenui, in realtà sospettosi, informatissimi. Ciò che cattura e inquieta del film è la tessitura di canto e controcanto tra una levigata facciata perbenista e il verminaio che si intravede pullulare tra gli interstizi.

Fatti e atti della apparentemente sana e ordinaria vita quotidiana di una comunità contadina si susseguono abituali: i pasti, il lavoro dei campi e nelle stalle, l’accudimento degli animali e la crescita dei figli, l’apprendimento a scuola e la celebrazione dei riti in chiesa, le scampagnate e le feste, i matrimoni e i parti, potrebbe tutto sommato trattarsi dello svolgersi della vita con i suoi alti e bassi, le gioie e i dolori, ma nel suo insieme serena e sana. Ma Michael Haneke di miseria e prepotenza, di perversione e infelicità è uno che la sa lunga, e la sa mettere in scena con un crescendo di orrore mai del tutto esplicito, mai gridato e del tutto scoperto. I corpi degli uccisi e dei suicidi vengono mostrati di lontano e di sbieco, tutto scivola solenne e scandito come una ragnatela viscida che lentamente avvolge e soffoca. Il Barone padrone dei campi è una maschera di bonomia protettiva, ma poi getta la maschera e si rivela prepotente e crudele. L’Intendente al suo servizio scodinzolando vede e provvede, ma appena i figli sgarrano li picchia con la frusta, con calci e pugni e la violenza di una belva. Il medico è sollecito nel visitare, dare consigli e prescrivere farmaci, ma è vedovo di una donna che si sospetta abbia ucciso perché scoperto a letto con la cameriera, per poi rifiutare anche questa seconda perché invecchiata e brutta, e consolarsi con la quattordicenne figlia propria. Ma è la figura del Pastore, benissimo resa dall’attore che la interpreta, quella significativa nella capacità di avvalersi del potere del proprio ruolo sulle coscienze, i corpi e le anime al fine di sfogare un sadismo da carnefice raffinato e perverso. Basterebbero le sequenze che lo mostrano nell’esercizio delle torture psichiche, morali e fisiche nei confronti dei propri figli per renderlo, nella sua ipocrisia virtuosa, mostruosamente, monumentalmente indimenticabile.

Insomma, la comunità rurale mostrata da Hanneke non è per nulla ordinata come all’inizio appare, ma un intrico contorto di prepotenza e disamore. Gli stessi bambini, teneri nella freschezza della loro età, sono in realtà di tanta infelicità i sensori e i moltiplicatori. Si salvano la moglie del Barone che decide inorridita di scapparsene con i figli in Italia, e il maestro di scuola che si sforza di fare bene il suo lavoro, ma deve arrendersi di fronte alla caparbietà del rifiuto che gli oppongono gli allievi e all’ottusità collettiva dei loro genitori. Il nastro bianco del titolo del film è quello che il Pastore impone ai figli come esaltazione visibile della loro purezza: per poi legare la notte ai più grandicelli pubescenti le mani al letto affinché non cedano alle tentazioni, impartendo loro punizioni e percosse alla minima disobbedienza. Come stupirsi che siano loro a vendicarsi a propria volta, tendendo trappole, colpendo a tradimento, arrivando a torturare bambini ancora più piccoli e deboli?

Qualcuno ha definito la comunità descritta nel film come anticamera e laboratorio del nazismo: come dargli torto? Haneke è uno che mostra di conoscere bene la natura umana. Se la ferisci e calpesti, prima o poi essa si vendica. Un personaggio del film a un certo punto rivolge alla sua compagna una frase curiosa e irridente: via cara, di cosa ti lamenti? Cosa c’è di meglio di un sano masochismo? C’è, c’è, sembra rispondergli Haneke: perché al primo corrisponde sempre un complementare e feroce sadismo. L’energia sessuale criminalizzata e repressa – le mani dei ragazzini crudelmente legate al letto la notte – il puritanesimo ipocrita e repressivo, le punizioni corporali e le umiliazioni pubbliche, si trasformano in sensi dì colpa e obbedienza coatta, in ostilità e odio, in costrizione e violenza di una macchina famigliare e sociale dove non contano le persone con i loro bisogni e desideri, ma il potere gerarchico e oppressivo dei ruoli. Il signor Padre, il signor Barone, il signor Medico e il signor Pastore sono tutte maschere in scena di maschi adulti che si pavoneggiano impettiti, si fanno baciare una mano per brandire l’altra minacciosa e pronta alla percossa della frustata, allo schiaffo e al pugno. Donne, ragazze e bambini, la parte famigliare e sociale debole, le bocche da sfamare e le prede da concupire, sono le vittime. Lo scopo è quello a accaparrare e sottomettere, in una guerra di tutti contro tutti.

Il film andrebbe visto da chiunque voglia capire come si costruisce una macchina sociale finalizzata all’esercizio di un potere gerarchico ruolizzato, fatto di padroni e servi, di capi e masse di subalterni, nel trionfo di un modello autoritario violentemente imposto e ferocemente difeso. E su come la logica di funzionamento di questo modello produca privilegi e guai, ricchezze e sofferenze, paura e ostilità, sottomissioni e perversioni. Il nastro bianco è un film che mostra didatticamente, ma con grande efficacia espressiva, gli effetti della diagnosi WillemReichiana: la formazione di una corazza caratteriale come risultato della repressione e torsione della sessualità. Come dire che l’inibizione forzata dell’uscita della lava dalle viscere del vulcano è alla base del potere assoluto di alcuni, provocando nefaste conseguenze su tutti. Il film è in effetti una lezione didattica sui prodromi e i presupposti dell’affermarsi di una mostruosa macchina nazista. Viene da ricordare la recente uscita di quel ministro della Salute inglese che raccomanda ai giovani: un orgasmo al giorno leva il medico di torno. Suonerà semplificazione un po’ ingenua, non laddove si tratti di un orgasmo non rapace ed estorto, non vergognoso, non negato come divieto o somministrato come consenso, non barattato a compensazione e bilanciamento, ma atto gioioso, frutto di un desiderio condiviso. Voi dite che siamo già al paradiso? Bene, nel suo film Haneke mostra perfettamente come praticando l’esatto contrario si finisce all’inferno e al nazismo.

P.S. Mi rendo conto, rileggendo, di avere forse trasmesso del film e dei suoi personaggi una immagine stereotipata di negatività un po’ fissa e univoca. In realtà il film questo non lo trasmette. I personaggi non sono tratteggiati come marionette al servizio di una tesi, ma persone vive e sofferenti, i peggiori maschi adulti compresi. Questo consente a chi assiste una condivisione emozionata e anche un po’ spaventata. Ciò che succede nel film è mostruoso ma del tutto verosimile, e va a toccare esperienze e corde presenti in ciascuno. Noi tutti veniamo in qualche misura da quel villaggio lì, e corriamo costantemente il rischio di riprecipitarvi. Il potere, le sue origini e il suo esercizio perverso, affonda da sempre lì la sua radice. In questo il film è esemplare e ha un valore universale. Bisogna ringraziare Haneke, che con Il nastro bianco ha vinto il primo premio a Cannes, e che così ha spiegato la filosofia che lo ha ispirato: "qualsiasi principio, quando viene assolutizzato, diventa disumano. Che sia un ideale religioso, politico o sociale, quando diventa pensiero unico produce il terrorismo. Una certa educazione e cultura in senso assolutista porta a degenerazioni altrettanto assolutiste, al terrorismo, al fanatismo religioso, al Nazismo”.

P.S.2 Sono cresciuto in un villaggio rurale del profondo veneto, nel vicentino della Madonna di Monte Berico, appena dopo la fine della seconda Grande Guerra, quindi a quasi cinquant’anni dall’epoca in cui Haneke ha ambientato il suo film. Da noi non c’erano signorotti locali arbitri e domini assoluti, e don Piero, il nostro prete, era stato inviato lì a fare il parroco, in un paesino di 300 abitanti, perché ritenuto troppo colto e autonomo, quindi per le gerarchie pericoloso. Teneva la domenica a messa dei sermoni che i contadini non comprendevano, mentre attiravano presenza e interesse di forestieri colti. Non ho visto né subito, quindi, da bambino e ragazzino, risultati e forme del rigore perverso e oppressivo presente nel film. La maestra Emma era una ragazzona allegra e appassionata al suo lavoro, non a caso ogni mattina si alzava alle cinque del mattino per raggiungerci da Vicenza. Mio padre era, di quel paesino e di altri vicini, il medico condotto: sempre amico e disponibile per tutti, partita a carte la sera in osteria inclusa. Mia madre, maestra, idem – partita di carte serale ovviamente esclusa. Noi ragazzini, fratelli e amici, giocavamo sul sagrato della chiesa, nel greto del torrente o nei prati tutto il santo giorno. Le sere d’inverno innevate e fredde si trascorrevano a giocare in qualche stalla a tombola nel tepore prodotto dalle mucche. Certo, c’erano i poveri e i benestanti, i virtuosi e gli ubriaconi. Ma tutti lavoravano sodo nei campi, in miniera, nella fabbrica dei Marzotto a Valdagno. Le prime forme della sessualità erano apprese e sperimentate sopra i fienili e nei boschi tra amici e compagni. Il sesso fobizzato e colpevolizzato l’ho scoperto alle medie tra i preti in seminario. Quante preghiere e invocazioni, contro le tentazioni, a San Luigi Gonzaga e a San Domenico Savio! Ma a quattordici anni ho iniziato la mia lenta sottrazione dalla mentalità sessuofobica e ideologia bigotta della morale cattolica. Della vita di paese di campagna, nelle sue forme semplici e un po’ ingenue, nella sua relativa ignoranza e arretratezza, ho conservato un ricordo di avventure e scoperte, di giochi tumultuosi in grandi spazi. Una partita di calcio con gli amici su un prato vicino al torrente, dove dopo fare il bagno, o una biciclettata la sera d’estate al cinema all’aperto, e, dopo, una fetta di cocomero gustata in comitiva, questo lo augurerei di cuore a vantaggio della salute psichica, morale e fisica dei ragazzi di qualsiasi latitudine e generazione. Anche per ridurre il troppo attuale di videogiochi, ipod, face book e internet.

Gian Carlo Marchesini