Antichrist di Lars Von Trier

Lars von Trier è uno di quelli che nell’affrontare i nodi fondamentali della condizione umana la mette giù dura. Nel farlo, come in questo suo ultimo film, non teme di esporsi al rischio di accuse tipo: esagerato, eccessivo, estremo al limite del grottesco. Lui i nodi e le asperità li affronta sul serio, prendere o lasciare. Il problema della condizione umana, ci dice Lars Von Trier, è che siamo tutti destinati a marcire sotto terra. Le nostre aspirazioni alla salute e al piacere, al benessere e alla felicità, il nostro bisogno di pace, bellezza e armonia, di comunione e condivisione, di riconoscimento e affermazione, sono tutti inesorabilmente destinati a nutrire i vermi. Noi siamo nati per la sconfitta e la resa finale alla morte, cioè al nulla. Che può arrivare quando meno te l’aspetti e magari colpire prima, di te, la parte più scoperta e vulnerabile, ad esempio il tuo unico e dolcissimo figlio bambino. E può farlo nel modo più inatteso e imprevedibile, più crudele e atroce, approfittando del fatto che i genitori sono disattenti perché totalmente assorbiti proprio dall’esperienza di piacere più bella e gradevole, più completa e assoluta: un amplesso sessuale – tra l’altro, paradosso crudele, proprio l’esperienza senza della quale quel bimbo non sarebbe mai nato.

E’ quella, sembra dirci il regista danese, la cattiveria smisurata della cacciata dall’Eden: proprio nel raggiungimento della dimensione di massimo appagamento e benessere di cui l’essere umano è capace, ecco arrivare la disconferma spietata, il disarcionamento finale e definitivo. Al suo massimo e meglio tutto precipita e finisce, il tumulto del godimento viene repentinamente sostituito dal naufragio nel dolore, nella colpa e nell’espiazione.

C’è da dire che Antichrist è un film piuttosto strano: dopo la tragedia dell’inizio che fa precipitare la coppia nella disperazione – senza il figlio bambino, la parte di te migliore, che senso ha continuare a vivere? – inizia per i due genitori un percorso di faticoso, doloroso recupero terapeutico. Il marito, un convincente e pietrificato Willem Dafoe, ne assume la guida; la moglie, una tormentata e depressa Charlotte Gainsbourg, pur tra ricadute e pene lentamente riprende a vivere. E fino a quel punto il film e la storia raccontata hanno un sensato percorso cinematograficamente persuasivo. Ma la seconda parte, ambientata nella casa isolata nella natura selvaggia della montagna, che i due hanno raggiunto per proseguire e completare la terapia, si trasforma in un incubo distruttivo e auto distruttivo. E’ come se Lars Von Trier avesse teso allo spettatore una trappola: ah, tu speravi che dopo l’iniziale sciagura per la coppia fosse ancora possibile una via di salvezza? Io ora ti accompagnerò ancora per un po’ in questa illusione: vedi, i due riprendono a vivere, a sorridere, dolore e ansia, panico e sensi di colpa allentano la loro presa, lei butta nel cesso i medicinali, riprendono a passeggiare, a mangiare, a fare l’amore. Beata illusione! Perché ora invece ti farò vedere io, pigiando sul pedale, di cosa noi umani siamo realmente impastati, di come la natura in generale, e quindi anche quella umana, dietro apparenti e ingannevoli armonie sia colma di odio e violenza, di volontà di sopraffazione, di impulsi alla distruzione. A sostegno il regista cita il fenomeno storico della caccia alle streghe, per darne però una versione curiosa, accreditando cioè la tesi, attraverso quanto fa dire alla stessa protagonista, che realmente sia la donna, in quanto a contatto diretto di una natura sostanzialmente matrigna e maligna, la porta attraverso la quale fa irruzione nella sfera umana corruzione e malvagità. Insomma, una misoginia che più tosta non si può. Fantasie, farneticazioni, deliri? A tradurli in immagini di crudeltà efferata e granguignolesca ci pensa il regista che dà fondo a tutta la sua esperienza di cinema, e gli interpreti con le loro risorse di attori.

Il tutto alla fine emana un suo fascino lugubre, un metafisico fetore, ovviamente per nulla consolatorio, anzi: le ghiande della centenaria quercia cadono come pioggia sul tetto della casa e si trasformano in grandine distruttiva; gli uccelletti ancora implumi cadono dal nido per essere afferrati al volo dal becco vorace del falco; la volpe è straziata e ha il ventre aperto che lascia la massa degli intestini bene in vista; il sesso maschile selvaggiamente da lei masturbato schizza alla fine non seme ma spruzzi di sangue; la donna, in preda a un parossismo autolesionistico, strazia la sua vagina con le forbici tagliandosi il clitoride, e via mutilando e sconciando in un crescendo in cui nessun dettaglio ci viene risparmiato.

Alcuni fotogrammi mi sono rimasti particolarmente impressi, e sono quelli che a me sembrano fornire una possibile chiave di illuminante lettura. All’inizio del film, nel prologo - forse dell’intero film i dieci minuti di cinema migliori – il regista mostra in parallelo la coppia che si abbandona alle gioie dell’amplesso, mentre il loro bambino nella stanza accanto si sveglia, scende dal letto, si avvicina alla finestra affascinato dalla visione della neve che cade, si affaccia entusiasta, si sporge, perde l’equilibrio e, in un ralenti orribile ed esteticamente sublime precipita sorridendo beato come fiocco tra i fiocchi di neve. Ebbene, alla fine del film il regista ritorna sulla scena iniziale, la ripropone e modifica facendo vedere che in realtà la madre, essendo le due stanze comunicanti e la porta aperta, mentre è all’apice del godimento tra le braccia del marito si accorge della sagoma del figlio che si avvia alla finestra, si arrampica e si sporge in pericolo. Ma il piacere è troppo forte e coinvolgente, e quella dimensione lei non la riesce proprio a lasciare: o almeno questo è ciò che suggerisce il regista. Ed è quindi da lì, da uno smisurato e immedicabile senso di colpa – io avrei potuto, ma non ho fatto niente per impedirlo – che nasce la rovina.

Verosimile o meno, esagerata ed eccessiva, la tragedia si compie mostrando le facce opposte di cui è impastata la vita. Noi oscilliamo tra irresponsabilità e colpa, tra morte e vita, anzi una accompagna e si tiene con l’altra, lo stesso piacere che inseguiamo e riceviamo grazie al sesso si compie e appaga nell’abbandono a una piccola morte anticipata. E da lì, da quell’irresponsabile annullamento ed assenza, ecco germinare la disgrazia, il rimorso, la solitudine e l’impotenza, la ricerca dell’espiazione attraverso l’autodistruzione – picchiami! picchiami! implora la donna mentre l’uomo la penetra. Per il regista danese siamo vittime e carnefici complici, tutti coinvolti e responsabili in un caos e sabba e sarabanda in cui è impossibile mettere un qualche ordine. E se per qualche momento ci si riesce, tutto è inutile, tanto poi arriva la morte. Prendere o lasciare, ci dice un Lars Von Trier, irrimediabilmente incazzato nero.

Ma attenzione che il finale del film si direbbe riaprire uno spiraglio di luce: il protagonista, livido e spettrale, ferito e insanguinato, dopo avere strangolato e bruciato la moglie che lo voleva seppellire vivo – e pensare che il luogo della casa di montagna dove il tutto accade viene chiamato Eden! – si allontana nel bosco e, sul ciglio della valle che declina, vede salire verso di lui una marea di ragazzi e ragazze che si arrampicano come in una festosa gita. E’ la nuova vita che malgrado tutto continua a irrompere insopprimibile e infinita? Noi saremmo, di questa avventura, soltanto una infinitesima e caduca scheggia? E dobbiamo esaltarci per esserne comunque partecipi, o schiantare e schiattare perché del tutto insussistenti ed effimeri?

GianCarlo Marchesini