Ultimo avviso ai viaggiatori

La stazione ferroviaria di Napoli Centrale si direbbe essere approdata all’immagine definitiva del peggiore disagio e degrado. Perennemente sottosopra – piazza antistante inclusa - per eterni lavori in corso, un luogo così cruciale e affollato è sottoposto a una riduzione drastica di spazi disponibili, dove comunque regnano polvere e frastuono causati da macchine e mezzi in continuo movimento. L’aspetto dominante è quello della sporcizia, della provvisorietà e della sospensione precaria, del trionfo di scarti umani, merci e materiali vari mescolati insieme in un anarchico caos. C’è da vergognarsi di doversi aggirare in luoghi simili, e la memoria corre allarmata allo scoppio del colera degli anni Settanta.

Dentro la stazione non esiste un luogo di ristoro funzionante, non una sala passeggeri né di prima, né di seconda classe, né per i Vip né per il popolino dei pendolari miserrimo e infimo. Non c’è una panchina dove sedersi: i pochi gradini potenzialmente utilizzabili come provvisorio e scomodo sgabello sono stati perfidamente guarniti di arpioni puntuti, adatti a masochisti o fachiri. Chi ha avuto questa idea dovrebbe essere immediatamente dichiarato incapace di intendere e volere, e messo definitivamente nella condizione di non nuocere. Questa è dimostrazione inoppugnabile che non solo i leghisti nelle città del nord, ma anche gli imitatori leghisti del sud adottano, contro i poveracci che popolano le stazioni - e già che ci sono, con lo slancio dei neofiti, erga omnes - rimedi analoghi.

Nella generale bagarre – a causa del ritardo nell’arrivo del treno da Palermo per Roma mi sono aggirato per due ore in quei gironi infernali, allibito e incazzato come un lupo – le uniche cose che ho constatato perfettamente funzionanti sono state le macchine che con due euro sputano dalla pancia bibite gasate, e le decine di giganteschi monitor che continuano imperterriti a vomitare orrendi spot promozionali di una multinazionale della distribuzione accompagnati dal refrain dell’Inno alla Gioia della Nona di Beethoven. Da provocare dopo un po’ come risultato attacchi di odio furioso nei confronti di quella splendida opera, e la voglia di strozzare con le proprie mani gli autori di un tale demente scempio.

A salvarsi, l’immagine di un ventenne seduto per terra a mordere gustosamente un gigantesco panino, la testa fasciata del cappuccio della felpa come un frate eremita, le cuffie all’orecchio a trasmettere musica protettiva. Un naufrago famelicamente vivo e vitale dentro una bolla, appollaiato su una zattera che galleggia e isola dalla marea di merda che sale e ti circonda. L’ho francamente invidiato, ho intimamente tifato perché almeno lui riesca a non soccombere, a portare avanti e altrove anche una sola scintilla del poco di luce che resta.

Gian Carlo Marchesini