I corpi, le forme.

L’apoteosi della bellezza, l’angoscia per la sua precarietà e fuggevolezza.

C’è a Roma in questo periodo una mostra d’arte che, a mio avviso, deve assolutamente essere vista. Si trova all’interno della Galleria Borghese nell’omonima Villa. Già contesto e dimora che la ospitano meriterebbero da soli una visita: si tratta infatti di una delle strutture più sfarzose e belle presenti in Roma, all’interno di una Villa che la accoglie ed esalta. E gli stessi saloni che si succedono in sequenza offrono agli occhi e ai sensi una festa di statue e sculture, di mosaici, dipinti e affreschi su volte e soffitti, un tripudio fantastico di putti e guerrieri, fanciulle e satiri da ubriacare fantasie e menti.

La mostra trova la sua originalità e cifra in una operazione di intenzionale confronto tra le opere di Caravaggio (e Raffaello, e Tiziano, e Rubens lì permanentemente esposte) e quelle di Francis Bacon, ritratti specialmente, accompagnate e alternate dalle statue sublimi di Canova e del Bernini. Questi artisti non appartengono, come si sa, alla stessa epoca e scuola, non interpretano in maniera consonante e analoga un approccio e un concetto estetico di arte e bellezza, e però… E però, essendosi tutti applicati con risultati superbi a una ricerca del senso e della forma corporea umana, ciascuno con sensibilità, filtri e approcci originali e propri, insieme contribuiscono, attraverso assonanze segrete e divergenze anche aspre, ad esprimerne di fatto una condivisa e identica sostanza.

In questo insieme esteticamente già così ricco, accostati in sequenza spuntano come per magia i quadri di Caravaggio e Bacon, uno a esaltare il meglio del corpo umano realisticamente concepito, l’altro a tentare di dare forma a una verità angosciata e angosciante per quanto di spezzato e incompiuto è in esso irrimediabilmente abortito. Caravaggio mostra la vita corporea al compimento della sua migliore forma, Bacon la vita che nel corpo non trova approdo e compimento, o che da un corpo incessantemente scorre via.

Meriterebbe un viaggio a Roma, di questi tempi, anche la sola visita a una mostra così concepita e ambientata. Anche perché, in una pausa che si rende necessaria nelle due ore di durata della visita, potrebbe capitarvi di assistere a scene come questa: al centro della sala, fratello e sorella - ragazzini sui dieci anni, Fanny e Alexander di bergmaniana ascendenza - sdraiati sulla schiena schiena sopra un ampio divano senza sponda, agitano in aria mani e braccia a indicarsi reciprocamente, eccitati e quasi trasfigurati, immagini e figure di cui l’intera volta del soffitto è ricolma: in un trionfo di bellezza lassù artistica e quaggiù umana dall’insieme delle quali confesso di essere rimasto definitivamente trafitto.

Gian Carlo Marchesini