Donne senza guscio – di Luisa Pogliana (Guerini e Associati - 2009)

O sulla specificità dei percorsi delle donne in azienda



Ho scelto di leggere il libro, riflessione sul risultato delle interviste a trenta donne dirigenti d’azienda, appuntando ed estrapolando alcuni passaggi che a me sono sembrati particolarmente significativi, e di telegraficamente commentarli. Mi è venuto poi spontaneo metterne a confronto gli enunciati con quelli di un altro libro “Estensione del dominio della manipolazione” (Mondadori 2009) frutto del pensiero di un’altra donna, la filosofa Michela Marzano. E infine ho cercato di dire anche la mia. Sperando che il risultato ottenuto produca a chi legge qualche stimolo.

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Devo premettere una osservazione: l’indagine è stata evidentemente condotta prima della attuale pesantissima crisi esplosa nel 2009, quindi in sintonia con il quadro economico precedente, problematico ma non così drammatico. Ciò non inficia del tutto interesse e pertinenza, ma in qualche modo sostanziale la rende parziale e limitata. Un po’, se mi è permessa l’immagine, come chi appunta la sua attenzione su come la casa deve essere ri-definita e ri-arredata mentre essa sta tremando dalle fondamenta. Ma questi sono alcuni degli spunti che nel libro mi hanno più colpito e coinvolto.

Le donne in azienda hanno un rapporto difficile con il potere… “. (Ma il linguaggio del capitale, della proprietà, dell’impresa, dell’attuale mercato e mondo del lavoro, è un linguaggio costruito sull’esercizio del potere, sulla sua conquista e mantenimento ferreo: il fatto che a dirigere una azienda sia una donna costituisce automaticamente e di per sé modello alternativo? Garantisce? E come, e rispetto a cosa?) “Crescita e piena realizzazione di sé nel lavoro…”. (Quale crescita, quale realizzazione, quale lavoro? Ma l’analisi proposta rappresenta la realtà come realmente è, o come piacerebbe fosse?) “Donne che non si sono arrese e adattate passivamente alla situazione data…”. (Ma, appunto, quale è la situazione data? La si condivide nella sostanza, la si vuole emendare e correggere soltanto in alcune parti e aspetti? Quali?) “Mettere in atto tentativi di rottura delle regole aziendali che ostacolano le proprie potenzialità…”. (Rottura di quali regole, e per promuovere quali potenzialità? E’ scontato che il lavoro costituisce banco di prova per sperimentarsi, conoscersi, crescere e in qualche misura realizzarsi. Ma quale è la valenza e la caratura, oggi, di parole e concetti quali espressione autonoma, creatività, libertà?) “Costruirsi nel lavoro un guscio che permetta una vita a propria misura… “. (E quale è in azienda questa misura, definita da quali parametri e criteri?) “La donne pagano i costi di una frequente e ingiusta disparità di trattamento…“. ( E’ verissimo: ma quindi si tratta soltanto di una questione sindacale e di rispetto delle pari opportunità?) “Basta cambiare certe regole e consuetudini…”. (Quali? E’ solo una questione di work life balance, di un equilibrio migliore tra tempo del lavoro in azienda e tempo dedicato ai bisogni e alle esigenze della vita privata? Ma, detta fuori dai denti, ci si può veramente “realizzare” e “trarre il massimo piacere” se si è pagati per far funzionare bene le cose altrui?) “Valorizzare nel lavoro in azienda affetti ed emozioni anziché negarli…”. (E’ del tutto vero che nel lavoro in azienda il più delle volte affetti ed emozioni vengono rifiutati come ostacolo e impedimento all’esecuzione lucida e fredda del proprio compito, all’esercizio “virile” del comando. Ma oggi, oltre a una rivalutazione e valorizzazione di emozioni e affetti, non c’è bisogno, anche e specialmente, di una radicalmente diversa razionalità? In effetti: di quale azienda, quale lavoro, quale mercato, di quale economia stiamo parlando? Siamo in presenza di una crisi di tali natura e dimensioni che c’è chi la definisce – ad esempio Stefano Zamagni – neanche di tipo dialettico, come quella del ’29, e quindi superabile grazie al genio del Keynes di turno, bensì entropica, e cioè catastroficamente implosiva. Siamo in presenza di un deragliamento e di una frattura oramai compiuti tra società ed economia, tra economia e politica, tra economia e mercato, tra economia e finanza, tra economia e lavoro – tra economia e qualsivoglia illuminante orientamento di tipo etico-morale: quale è la posizione delle donne manager rispetto a una crisi di natura così catastroficamente entropica e implosiva, quale è il loro punto di vista, cosa hanno di utile e specifico da proporre per attrezzarci e saperla affrontare e superare?)

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Insomma, come ho fino a qui cercato di segnalare, il libro di Luisa Pogliana è riccamente intrecciato di questioni (il potere, il lavoro, la carriera, il denaro) affrontate e trattate con il soccorso e contributo del coro di testimonianze ed esperienze manageriali femminili messe in campo, commentate e valorizzate. Mi ha colpito, tra le tante, la messe di riflessioni dedicate al tema del lavoro in azienda. Ad esempio, l’affermazione che nella visione femminile del lavoro non importa tanto cosa, ma si vuole e reclama il come. Ecco quindi un elenco rappresentativo delle sue evocate, dal punto di vista femminile, agognate e irrinunciabili prerogative: esplorazione; comprensione; espressione; crescita; valorizzazione; realizzazione; riuscita; emancipazione; autonomia; libertà; creatività; fantasia; piacere; arte. Ma nella realtà fattuale (e maschile) odierna il lavoro è, ahimé e invece, il risultato prevalente di: appropriazione; espropriazione; sopraffazione; manipolazione; dissociazione; incoerenza; bulimia; irrazionalità; insensatezza. E anche di: subalternità e subordinazione, assoggettamento e asservimento; brutalità e disprezzo; avidità e coercizione; costrizione e violenza. Nella concezione maschile del lavoro la carriera è una corsa (trafelata e convulsa), il progetto è, letteralmente, un gettarsi (spasmodico) in avanti. Il primato che si persegue è univoco e irrinunciabile, e consiste nel battersi, affermarsi, imporsi, sopravanzare, sconfiggere, dominare e vincere. L’approccio femminile è invece orientato a comprendere, contemperare, includere, integrare, armonizzare, appagare le esigenze del plurale, del molteplice differenziato e diversificato. Il lavoro, nella (catastroficamente dominante) concezione maschile è spesso riassunto in un gesto di (onni)potenza: una folgore scagliata da un Giove irato dalle nubi dell’Olimpo. Il lavoro nella versione femminile è invece tessitura tenace di una tela aperta e inclusiva, un patchwork espressione e risultato di una molteplicità messa all’opera e valorizzata. Si è indotti a pensare che solo colei che è da millenni - da sempre – esperta nel creare e plasmare a una nuova vita, può dare forma armoniosa a un nuovo mondo - del lavoro e non solo. (Un po’ come succede in continenti come l’Africa, dove sono prevalentemente le donne a mantenere capacità produttiva oltreché riproduttiva: di umanità, economia, ricchezza, socialità). Ma il passaggio, oggi che in gioco e in movimento sono le (spesso fortemente) diverse e differenziate moltitudini globali, non è affatto semplice. Per ora, stante il rapporto di forze in campo, è più facile che la presenza femminile ai vertici delle aziende sia cooptata e piegata alle logiche maschili, piuttosto che l’incontrario. Bisognerà che l’immissione della presenza femminile sia quantitativamente molto più massiccia perché si costituisca una base necessaria al rovesciamento e cambiamento radicale di linguaggi, mentalità, visioni, logiche. Probabilmente è solo questione di tempo e olio di gomito - per usare una immagine tipica dell’ impastatrice all’opera. Il punto è che il tempo stringe…

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Estensione del dominio della manipolazione (o sulla tendenza delle aziende all’intrusione nella vita privata dei propri dipendenti), è libro che può essere utilmente confrontato, forse anche perché più freddo e disincantato, a quello di Luisa Pogliani, In esso Michela Marzano si chiede: la missione di un’azienda è quella di realizzare il massimo profitto possibile nel settore in cui opera, o di contribuire a realizzare il benessere e la felicità di chi ci lavora? E quanto le due cose sono tra di loro interconnesse, insieme armoniosamente declinabili e compatibili? Secondo la Marzano, far credere che il benessere di chi lavora in un’azienda sia compatibile e compossibile, o addirittura coincida con il perseguimento del massimo profitto degli azionisti, e che al management, ai responsabili delle risorse umane e ai coach stia effettivamente a cuore il benessere dei dipendenti, è concezione manipolativa strumentale e cinica. Il lavoratore di un’azienda – sostiene sempre Michela Marzano - farà del suo meglio per portare a termine i compiti assegnati in cambio di una retribuzione concordata e di condizioni di lavoro sicure, accettabili e civili, ma, per favore, non fingiamo che benessere e felicità personali coincidano o derivino dal contributo che egli può dare al raggiungimento della missione aziendale. Il senso, il valore, la qualità, il successo o il fallimento nella vita di chi lavora non è consustanziale al successo dell’azienda in cui lavora o dal suo fallimento. Ai proprietari e agli azionisti dell’azienda sta a cuore il profitto da essa prodotto, e a tale fine pretendono il massimo sforzo collettivo, ma sono pronti a scaricare chi non si dimostri allineato e funzionale. Azionisti proprietari, management e addetti ai vari compiti non costituiscono un blocco unico, omogeneo e strutturalmente solidale, non sono una famiglia che si è costituita su una libera, condivisa e solidale reciprocità: anche se oggi questa risulta essere sempre più concezione e ideologia di molti formatori aziendali, coach e responsabili del personale. Fingere che sia possibile incorporare nel lavoro in azienda anche il senso della vita, del benessere privato e della felicità personale, significa indurre all’accettazione di una servitù volontaria, adeguarsi a una semplificazione equivoca, a un inganno e a una torsione che non rendono giustizia all’ordine vero delle cose. Non si dà infatti sovrapposizione possibile tra condizioni di lavoro e dimensione della vita, che, per fortuna, scorre anche altrove e fuori dall’ufficio o dall’azienda – in famiglia, nelle relazioni amicali, nell’impegno sociale e politico, nelle passioni private. Sostenere il contrario contribuisce solo a rendere vaghi e indefinibili i confini, quando addirittura non si pretenda, ovviamente sotto il segno del primato dell’azienda e del suo massimo profitto, di farle coincidere tra di loro.

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E allora - tornando al libro di Luisa Pogliana -, care e intrepide “donne senza guscio” che legittimamente rivendicate pari opportunità e migliori spazi nell’accesso alle risorse e agli strumenti della casa/azienda, e pure il diritto di praticare modalità di relazione e linguaggi vostri specifici, ricchi di valenze affettive e dell’intera gamma delle emozioni, e che reclamate una più equilibrata distribuzione e compresenza tra tempi di lavoro e tempi di vita personale privata; care donne che sollecitate un modo migliore, diverso e più giusto, più sensibile, attento e rispettoso nell’abitare e vivere la casa/azienda, di lavorarci senza tradire e rinunciare e unilateralmente sacrificarvi, come troppe volte, in quanto identità di genere, finora è successo e ancora succede: ma non vedete che quella casa è oggi stravolta e devastata, e le attività che vi si svolgono sono non solo rallentate e diminuite, non solo frenate se non addirittura delocalizzate e dismesse, ma sempre più spesso anche fuori controllo e del tutto prive di senso? E allora, più che questione attinente al meglio partecipare e al più appropriatamente contribuire, più che di questione di emozioni e affetti, non si tratta di cercare insieme una radicalmente nuova razionalità, di assumere la decisione di sgomberare le macerie, rifondare e ricostruire i termini del cosa e come fare, il senso e il perché? Si tratta, in conclusione, di un impegno pur necessario e nobilissimo di partecipare tutti alla pari, e avere tutelate libertà e prerogative inerenti identità e linguaggi, e spazi e tempi per meglio fruire delle molteplici dimensioni della vita, o, invece e prioritariamente di impegnarci tutti per uscire dalla logica folle del massimo individuale e privato profitto da realizzare nel più breve tempo, a qualsiasi condizione, costi quel che costi e a prescindere?

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Qualche tempo fa mi sono trovato ad ascoltare una collega di lavoro, madre di un bimbetto e con ruoli e compiti aziendali di impegnativa e importante responsabilità, affermare con allegra e ringhiante determinazione: chiunque nel lavoro mi si mette di traverso, io lo gambizzo! E lo diceva a voce alta e grinta esibita rivolgendosi a un gruppo di sue collaboratrici che sorridevano consenzienti. Non voglio certo ricavarne conclusioni di carattere generale. Mi sento però di osservare che lo stile nel linguaggio, nell’atteggiamento e nei comportamenti non è oggi così facilmente caratterizzabile, separabile e distinguibile per identità di sesso e genere. Si tratta di logiche di comando aggressivo che negli ultimi tempi sono diventate sempre più trasversali e diffuse. Se abbiamo sperimentato negli ultimi decenni l’avvicendarsi nel primato di contraddizioni basic – quella tra padrone e operaio, l’altra tra uomo e donna, la terza tra impronta di vita e attività umane e ambiente fisico – oggi le tre sembrano convergere insieme in uno show down decisivo. Tocca, per evitare l’irreparabile peggio, rimboccarsi le maniche tutti e tutte, donne e uomini di buona volontà. Manager viene dal latino manu agere, condurre per mano. Chi più della donna, grazie alla sua esperienza e cultura, è in grado di prendere per mano l’azienda, l’economia, una società in crisi, e con la lucidità e la determinazione forgiate in millenni e millenni di vitali e generosi maternage condurle a recuperare senso, capacità produttiva sana, integrazione proficua?



Insomma, sicuramente positivi sono valori quali autorealizzazione, libertà, autonomia, creatività: ma c’è bisogno di recuperare, come anima e senso del fare, la dimensione della reciprocità, della restituzione abbondante e larga, della cooperazione orizzontale, democratica e paritaria, della gratuità e del dono. O sprofonderemo tutti - alla Madoff, per evitare di citare personaggi e modelli a noi più ingombranti e vicini - nel delirio (di onnipotenza), nel disastro (ambientale) e nella merda (morale e materiale).

Gian Carlo Marchesini

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