Biutiful, di Alejandro Inarritu

C’è una piccola frase pronunciata verso la fine del film, una supplica che dice esattamente così: “Ti prego, portami in vacanza un’altra volta..!”. Di una normalità banale, come chiunque può capire. Chi non l’ha mai almeno una volta pronunciata? Solo che la frase è detta da un personaggio del film, la moglie del protagonista, a un certo punto della storia raccontata, e detta in un modo tale da funzionare come esplosione catartica di una piccola bomba atomica emotiva. Si rimane trafitti, gli occhi pieni di lacrime, perché ci si riconosce totalmente nella verità rivelatrice di un’anima universale, di un climax, di cui quella piccola frase è portatrice. Si tratta di una donna tossica perduta in fase di crisi psicotica regressiva, che sull’orlo del baratro, pur disperata si rivolge fiduciosa al marito: cui è appena stato diagnosticato un tumore alla prostata in fase irrimediabilmente avanzata, e che, malgrado la catastrofe appena conosciuta, si preoccupa della moglie tossica perduta e dei due figli bambini a rischio di abbandono totale a causa di una madre di tale fatta. (“Voglio essere una buona moglie e una brava mamma” – dice a un certo punto la tossicodipendente signora – “ma voglio anche godere e divertirmi come una puttana”). E questa frase sembra essere, per Inarritu, epitaffio ed epigrafe della condizione umana.

Ecco, Biutiful è un film che tiene magnificamente dentro tutto e il contrario di tutto, perché noi siamo composti di questo e di quello: la tenerezza infinita e l’infinita violenza, uno sconfinato amore materno e paterno, ma in certi maledetti casi anche l’omissione di soccorso, l’eccesso brutale e invasivo e l’abuso. Il segreto del regista sta tutto nel raccontare e rappresentare quanto la vita sia esplosiva e scandalosamente esagerata dentro le vicende di una quotidianità tutto sommato banale e spoglia: marito e moglie si sono amati moltissimo e continuano in qualche modo ancora ad amarsi - ma allo stesso tempo non si sopportano più. Genitori e figli che si adorano e sono tra di loro indissolubilmente legati, e allo stesso tempo si tiranneggiano e infliggono crudeltà e sofferenze enormi. Il padre – un monumentale, mostruoso, totalmente calato nella parte Javier Bardem – si occupa dei figli, ma per sbarcare il lunario e ricavare il necessario reddito fa da consigliere e manager sui generis di africani venditori ambulanti lungo le ramblas di Barcellona, e di cinesi clandestini super sfruttati a cucire borse in cantine fatiscenti e a costruire palazzi senza protezioni in cantieri periferici.

Il banale e il mostruoso, il violento e l’osceno, il totalmente odioso e il dedito e amoroso, nel film convivono e si mescolano: nello stesso contesto, famiglia, storia, scena. I due loschi compari cinesi sfruttatori dei loro connazionali ridotti in condizioni disumane miserrime – ma tanto in Cina gli stessi guadagnerebbero un decimo o un centesimo di quello che guadagnano qui –, si amano tra di loro tenerissimamente. Il protagonista, Javier Bardem, regala per compassione ai cinesi che dormono all’addiaccio in cantina stufe a gas per intiepidire loro la notte: determinandone così la morte collettiva per una fuga di gas determinata dalla pessima qualità delle stufe. Insomma, dice Inarritu, la vita è uno splendido, affascinante, sublime letamaio. Ma lui la ama evidentemente senza riserve e senza farsi troppo impressionare dal letamaio. In particolare io trovo toccante e prodigioso inizio e chiusura del film. Vita e morte, dice Inarritu, si tengono per mano: e quindi all’inizio, e alla fine ripetuto, ecco mostrato il breve fulminante racconto del padre del protagonista del film – e verosimilmente il padre anche di Inarritu - emigrato in fuga dal regime franchista e morto di polmonite appena arrivato nel gelo del Canada. Il figlio rimasto orfano perché nato senza mai avere conosciuto il padre lo incontra quarant’anni dopo: con il figlio che a quel punto è il doppio più vecchio del padre, e il padre ventenne che tratta il figlio quarantenne – e si incontrano dopo le rispettive morti terrene – con la identica affettuosa paterna ironia con cui un vero padre tratterebbe il figlio lasciato quando quello era appena nato. Insomma, suggerisce Inarritu, non essendoci mai visti, o essendoci fin da subito persi, non è affatto detto che mai più ci rivedremo.

Inarritu si prende affettuosa cura dei materiali che costituiscono e costruiscono la nostra identità, per dare loro un inaspettato e improvviso calcio in culo e mandarli a gambe all’aria, mostrandoci come i nostri valori veri ed essenziali – la tensione e la necessità di legami d’amore irrinunciabili, per esempio - sono confiscati e prigionieri dentro forme transitorie e derisorie che noi tendiamo invece a ritenere uniche e assolute. Noi viviamo a prescindere, suggerisce Inarritu, duriamo in un tempo senza tempo. Viviamo anche prima, vivremo anche dopo – nelle farfalle, nei gabbiani, nel brusio di voci e sospiri, nel rumore del vento e delle onde del mare, nell’esercito di fantasmi e ombre che ci circondano e accompagnano. Tutto ciò raccontato e rappresentato con l’assoluta padronanza di quello che una volta si chiamava specifico filmico, e con l’assoluta, per quanto a volte tragica e cupa, grazia e poesia di Inarritu Da esclamare: chapeau, ecco un grande cinema! P.S. L’anno scorso sono stato a Barcellona per la prima volta in vita mia: ramblas e tapas, Gaudi e Tibidabo, piazze incantevoli del centro storico e mercati affollati di popolo godereccio e festoso. Una città vitale e solare, ricca e industriosa. Biutiful mostra di Barcellona l’altra faccia, quella sotterranea e opposta, quella miserabile e losca. I clandestini africani e cinesi stipati in scantinati e vicoli fatiscenti, i locali e i bar di spaccio e ritrovo dei tossicodipendenti, i mille traffici dove domina il denaro e gli umani sono poveri corpi sfruttati, comprati e venduti, uccisi ed eliminati. Grazie a Inarritu, ora di Barcellona ho una immagine più intensa, reale e completa.

Gian Carlo Marchesini