Nintendo DS   

(Diletto Sublime o Distruzione Suprema?)


Dieci anni fa, quando a Roma abitavamo ancora al terzo piano di una palazzina con vista su Villa Leopardi, Valentina, la nostra collaboratrice domestica filippina di quel periodo, rimase incinta. Con il suo legittimo marito rimasto nelle Filippine non era mai riuscita a diventare madre, con un nuovo compagno già sposato e con figli, di cui si era invaghita a Roma, era rimasta in un batter d’occhio gravida. L’uomo in questione era in realtà un poco di buono. Beveva, fumava, giocava d’azzardo. Infatti, prima ancora che venisse al mondo Kevin, Valentina l’aveva sdegnosamente cacciato. Aveva avuto quello che cercava, non aveva bisogno d’altro. Kevin, figlio di Valentina e dell’occasionale prestatore di seme, venne al mondo un giorno piovoso di febbraio in una clinica romana delle tante attrezzate. Fu alla festa del suo battesimo che io e Cecilia abbiamo conosciuto buona parte della romana comunità filippina. Noi avevamo allora nostro figlio Roberto di dieci  anni, ma fummo felici di accogliere anche Kevin. La nostra convivenza durò senza problemi per un paio d’anni, ci davamo tutti una mano, io portavo Kevin a vedere i cani giù in villa, o a guardare le partitelle di calcio tra Roberto e i suoi amici. Con Kevin in braccio mi piaceva anche ballare sul ritmo travolgente di qualche pezzo musicale di Santana. Cecilia era poi felice di tornare un po’ mamma di un bambinetto asiatico dagli occhi a mandorla. Poi Valentina ci annunciò che aveva deciso di far crescere suo figlio nel villaggio di origine con i nonni e gli zii, anche perché il marito aveva solennemente dichiarato che l’avrebbe accettato. Detto fatto, partì con Kevin e tornò dopo un po’ da sola. Io e Cecilia, scambiandoci perplessità e  impressioni, concludemmo che in realtà la improvvisa e inaspettata decisione di Valentina doveva avere a che fare con un altro ordine di motivazioni: sostanzialmente con il fatto che Kevin cominciava a manifestare segnali di un attaccamento troppo forte nei nostri confronti: nei miei che incarnavo ai suoi occhi la figura paterna altrimenti assente, poteva anche andare, ma del fantasma di una seconda madre per suo figlio Valentina non poteva tollerare neanche l’ombra. Se ne sentiva così minacciata che, dopo essere rientrata sola dal suo paese, decise di trovarsi lavoro presso un'altra famiglia. Tra noi, in casa, il fantasma di Kevin risultava ancora troppo insopportabilmente presente. Al nostro servizio, al suo posto, è tornata la sua amica Miusi, anche lei filippina e prima tata di Roberto. Valentina è poi rimasta incinta, in uno dei suoi rientri in patria, grazie al marito evidentemente ispirato dalla presenza di Kevin, ed è nata Friedlin, che vive attualmente nel villaggio insieme al fratellino tra nonni, cugini e zii. Ora Valentina accudisce due anziani afflitti da Alzheimer e Parkinson, bisognosi quindi di assistenza totale, e con lo stipendio che riceve mantiene tutta la sua tribù nel villaggio filippino. Li vede un mese l’anno, di più non può, il biglietto aereo costa troppo, i vecchietti  che assiste a Roma la reclamano.    

Per queste feste di Natale Valentina ci ha fatto un bel regalo. E’ partita per il suo villaggio, ha preso con sé i figli e ce li ha portati un giorno bellissimo a casa qui a Roma. Abbiamo così rivisto Kevin otto anni dopo la sua partenza, abbiamo conosciuto la sua graziosissima e simpatica sorellina di sei. Sono tutti e due bambini splendidi, innamorati famelici della madre che purtroppo si godono soltanto un mese l’anno. Valentina racconta ridendo, ma con le lacrime agli occhi, che la notte, quando stanno insieme, vogliono tutt’e due dormire a letto con lei, e tutti e due, uno per lato, non si staccano un istante dalla sua mano. 

Ho chiesto a Valentina quale potesse essere il regalo più gradito ai bimbi. Un Nintendo DS, mi ha risposto. Poi ha aggiunto: però costa troppo. Ma ho sentito nel suo tono un po’ sospeso tutto il desiderio dei suoi bambini, e non ho resistito. Io il Nintendo DS manco sapevo esistesse, ma poi Roberto mi ha spiegato in cosa consiste, come funziona, quanto costa e dove si trova, e ho fedelmente eseguito. 

Il negozio di giocattoli più grande e a noi più vicino è a Piazza Bologna. Ci vado, il negozio è affollato, ci gironzolo un po’. In un’area vicino alle casse che funge da spazio d’attesa, un gruppetto di persone discute animatamente. Nell’atteggiamento del cliente che cerca e non trova, mi avvicino e ascolto. Mi rendo subito conto che nel gruppo la donna è la proprietaria del negozio, i suoi interlocutori sono titolari di altri negozi di giocattoli della città. Oggetto della discussione è come organizzarsi al meglio per essere pronti nel rispondere alle particolari richieste dei bambini e dei loro genitori. E dallo scambio di riflessioni tra di loro scambiate esce fuori un quadro di meccanismi strettamente correlati. Succede infatti che con regolarità periodica dal pubblico dei clienti giunge richiesta di un nuovo gioco, di un particolare personaggio in forma di pupazzo o bambola. La domanda arriva come un’onda sprigionata da un impulso apparentemente misterioso. Tutti reclamano quel particolare giocattolo, la richiesta dura un certo periodo, poi si attenua e scompare per essere sostituita da una analoga e diversa. Oggi è di moda un gioco particolare, domani un altro e posdomani un terzo. Punto e a capo. A determinare la frenesia di queste ondate ricorrenti è la messa in onda di cartoni animati e di altri programmi televisivi per bambini che  hanno già all’interno delle loro storie il giocattolo o il personaggio che poi sarà massicciamente commercializzato, accompagnati da spot pubblicitari mirati. Da lì parte il virus che presto si tramuta, sulla spinta del tam tam e dell’imitazione, in epidemia e spesso in vera e propria pandemia. Se il fuoco della cupidigia infantile così sapientemente sollecitato esplode, non c’è genitore in grado di resistere, ed ecco formarsi le file alle casse. Basta seguire i programmi televisivi per i bambini di oggi – era la conclusione coerente dei miei pensosi discussant – e saprai quali saranno i giocattoli richiesti domani. Il mio era evidentemente il tempo del Nintendo DS, e quel regalo non costa affatto poco: 139 euro se nuovo, 119 se usato, sia pure con garanzia. Mica poco, borbotto tra me e me. Ma eccezionalmente, per bambini filippini alla vigilia del rientro al loro paese, e che probabilmente non rivedrò  più… Il punto è – scopro informato da solleciti commessi – che il Nintendo, pur così costoso, è ancora semplice macchina celibe di giochi che devono a loro volta essere acquistati: 39 euro se nuovi, 19 se usati. Per nulla poco! continuo tra me e me a bofonchiare. Mi aspettavo di spendere qualche decina di euro, scopro invece che ne devo spendere alcune centinaia. Ma immagino la delusione scorata negli occhi dei piccoli, il velato rimprovero in quelli della madre, e cedo. Un bel libro illustrato, no eh? Ma quelli hanno proprio chiesto il Nintendo, siamo sotto l’Epifania, i miei prediletti sono filippini, probabilmente non li vedrò mai più, ecc. ecc.  Lo so che qui bisognerebbe essere un po’ più rigorosamente etici, disinvoltamente cinici. Ma io fondamentalmente sono un romantico idealista. Mi basta immaginare la felicità di un bambino per commuovermi e cedere di schianto. Mi resta intero il dubbio: quale reale quota di intervento hanno oggi i genitori nel grande gioco delle televendite pubblicitarie sotto forma di innocente cartone pubblicitario: quella di coglioni ufficiali pagatori? 

Io sono incline a dare importanza a questi interrogativi, e mi assalgono dubbi non poco molesti. Ho provato a manifestarli ad alcuni amici insieme ai quali ho cenato la notte di Capodanno. Immaginavo sintonia e conforto, sono stato invece da qualcuno perfino rimproverato e anche aspramente contestato. Sarebbe la mia formazione unilateralmente umanistica a indurmi tanto esagerato allarme. E poi, i nostri genitori, a noi bambini o ragazzini, non rimproveravano ugualmente il nostro entusiasmo per i nuovi giochi a loro poco graditi, per le varie mode  irrompenti (la musica rock!), per qualsiasi novità oggetto delle nostre brame? Ma ci ricordiamo le follie per un banale cerchio come l’hula hoop? A sollevare il tema, credendo di trovare solidarietà e accoglienza, mi sono sentito dipingere nel ruolo antipatico del passatista piagnone. E siccome qui le parti in gioco sono tante, e l’accusa formulata nei miei confronti temibile, qualche dubbio sotterraneo confesso che mi è venuto. Mi sono sentito pure compatire per il mio entusiasmo nell’essere riuscito a distogliere i due bambini dal Nintendo, a coinvolgerli in danze e gare di ping pong. Mi è stato  diagnosticato che di operazione paternalistica si era trattato, e che i bimbetti maliziosi avevano rifilato il contentino di cui mi avevano sentito fortemente desideroso. 

Mi sono sentito rivestito dei panni del vecchio donchisciotte che combatte di retroguardia contro i mulini a vento. E mi è venuto in mente il sogno del mio amico Gerson che a Bahia vorrebbe mettere in piedi una scuola di surf per i ragazzini di strada di una favela dove anche lui è cresciuto. Ha in mente un tratto di spiaggia libera, un capannone da affittare con spazio protetto dove lasciare in deposito le tavole, e attrezzato con assi per poter servire un pasto caldo, insieme a qualche libro e quaderno su cui imparare a leggere e a fare di conto. Sono migliaia i bambini laggiù che non hanno un luogo protetto dove giocare, mangiare, studiare. Qualche Nintendo in meno qui, qualche tavolo di surf in più là, qualche adulto disposto a seguirli, accudirli, prendersene cura e farli crescere. Ma i miei amici di qui mi guardano ridendo un po’ indulgenti, un po’ sfottenti. Bisognerà pure che prima o poi mi decida a restare dentro le mie scarpe, a smetterla di cercare di salvarmi anima e coscienza applicandomi alla salvezza di qualcun altro.

Alla fine, malgrado dubbi, perplessità e dissensi, ho dunque accettato di regalare a Kevin e Friedlin l’agognato Nintendo. E’ vero, li ho visti trasformarsi come per magia e sortilegio in esseri felici e subito dopo, iniziato il gioco, trasformarsi in cloni completamente assenti. E un po’ di disagio, un sottile rimorso, continuano a inquietarmi dentro. Dipenderà sicuramente dalla mia formazione umanistica e da un residuo indistruttibile di lascito sessantottino. A vederli giocare, pallidi e assorti, labbra frementi e socchiuse da cui escono alternandosi gridolini di esultanza e gemiti di sconforto, ho visto in loro l’immagine perfetta di un piacere infinitamente prolungato, una sorta di irresistibile, etereo e cerebrale – mi si perdoni il termine forte - orgasmo bambino. D’altra parte, solo un effetto di piacere analgesico molto potente può spiegare la bramosia del possesso, l’accanimento così instancabilmente masturbatorio nell’uso. In buona sostanza, io sono convinto che è questa, sotto il nome innocente di gioco, la vera essenza del risultato che noi regaliamo loro.  

I nostri piccoli amici e la loro madre, dopo Capodanno, sono partiti per le Filippine. Valentina tornerà presto per sostenere al meglio e accompagnare al probabile approdo finale i suoi due vecchietti; Kevin e Friedlin può essere che li rivediamo fra qualche anno, o forse mai più. Miusi ci ha spiegato che il villaggio dove abitano è piccolo, povero e isolato in mezzo alle foreste. E che loro probabilmente saranno, tra tutti i bambini, i soli a possedere un Nintendo DS. E racconteranno come l’hanno avuto, chi glielo ha regalato. 

Dopo qualche giorno io, Cecilia e Roberto siamo partiti per trascorrere qualche giorno ospiti a Torino di nonna, zie e cugini. Il viaggio in treno è stato abbastanza lungo, anche perché alcune scosse di terremoto che ci avevano  preceduto hanno tenuto fermo il treno alla stazione di Bologna per due ore in attesa che i tecnici verificassero la sicurezza delle linee. Passeggiando attraverso le tante carrozze per sgranchirmi le gambe, ho notato che tra i bambini presenti due su dieci leggevano, gli altri otto giocavano concentrati e assorti sul loro personale e privato Nintendo.  Ho segnalato sorpresa e disappunto a mio figlio  Roberto, che di anni  ne ha ventuno, fa filosofia e su informatica e elettronica ne sa molto più di me. Gli ho anche detto che a mio avviso i videogiochi tendenzialmente isolano dal contesto di realtà circostante, separano da chi ti sta vicino, mi sembrano di una presa tanto esagerata da apparire un pò maniacale. Lui mi ha rimproverato di demonizzarli: mentre di positivo stimolano logica razionale e prontezza di riflessi mentali, così come lettura, cinema  e musica,   nutrono di noi il versante emozionale. Si tratta di alternare e integrare meglio, tutto lì.

A me i bambini del treno verso Torino (otto su dieci!), per ore così assorbiti e quasi prigionieri della loro scatoletta magica, continuano a suggerire una qualche immagine mutuata da film alla Matrix. Sapete, i feti larvali dentro contenitori cilindrici colmi di un giallognolo liquido amniotico di cui sono riforniti attraverso cavi e sonde. La luce è di un azzurro elettrico da clinica svizzera o da anticamera della casa dell’orco. I rumori ovattati in sottofondo, fruscii liquidi e borborigmi metallici. Mio figlio ha un bel rassicurarmi che i videogiochi svegliano e sviluppano alcune facoltà della mente, a me interessa anche chi decide realmente oggi sul tempo libero e sugli intrattenimento dei nostri figli piccoli, attraverso quali modi sleali e subdoli, con quali possibili esiti prossimo venturi.

E adesso volete che non ci sia anche un bel: “Ai miei tempi…” ?  E infatti, eccovi accontentati. Quando avevo l’età che hanno oggi i miei piccoli amici filippini, anch’io abitavo un villaggio di campagna che credo non così diverso dall’attuale loro: una frazione su un cucuzzolo di collina (Lovara, 300 abitanti), a 5 km dal centro del paese (Trissino, che deve il suo nome al poeta Gian Giorgio, scopritore – e inventore, gli ha imposto il nome d’arte! – del genio di Andrea Palladio). Allora io neppure mi rendevo conto del cumulo di glorie letterarie e architettoniche su cui ero seduto,  pensavo ben più importante e famoso il laniero Giannino Marzotto, proprietario di Villa Trissino e gran corridore di Mille Miglia… Comunque sia, alla vigilia dell’Epifania, i nostri genitori (papà medico di campagna, mamma maestra di scuola elementare, professionalmente molto stimati e benvoluti, cattolici praticanti e democristiani convinti) ci caricavano sulla vecchia e gloriosa Balilla per portarci al negozio di giocattoli meglio fornito di Arzignano, il centro commerciale più importante dei dintorni. Dove spendevamo, con qualche loro piccola integrazione, i risparmi giudiziosamente infilati in salvadanaio durante l’anno. Allora il “mettere da parte” e il “rinunciare per fare un fioretto alla Madonna” erano pratiche, almeno nella nostra cultura veneta, molto in uso. Io ricordo che uscii da quel negozio trionfante con nelle mani i pacchetti che contenevano un pinocchio che si agitava disarticolato in mille mosse buffe fino a crollare miseramente al suolo, a seconda di quanto a fondo si pigiasse sul pulsante posto nel piccolo cubo sotto i piedi; e un tamburo di latta con relativi legni percuotenti con il quale rallegrai e assordai, a seconda dei punti di vista, il paese nei giorni successivi.  Ma  i giochi di noi ragazzi e bambini, nei lunghissimi e rigidi inverni di quegli anni Cinquanta, e beninteso e a maggior ragione anche durante le vacanze d’estate, erano tutti – tranne la lettura – largamente collettivi e sociali. La sera si raggiungeva una delle stalle delle famiglie contadine che si prestavano a turno per ospitare chiunque volesse partecipare a tombole, tornei di gioco a carte, racconti e favole che i vecchi in abbondanza elargivano. Eravamo ogni volta presenti a decine e decine, maschi e femmine, vecchi, giovani, bambini e bambine, ci scaldavano le mucche che ogni tanto a turno liberavano, oltre al calore,  fumanti scrosci liquidi e valanghe di grasse e odorose “boasse”. Noi fratelli, alla fine delle serate di tombola, correvamo tra cumuli di neve a casa dei Costa, fruttivendoli, per spendere tutte le vincite in scorpacciate di cachi e fichi e frutta secca. Era allora, per noi e la nostra crescita, meglio o peggio dello stile di passatempi e divertimenti oggi in auge presso gli attuali bambini? Mi guardo bene dal pronunciarmi, per non suscitare le ironie e i sarcasmi sulle mie sicuramente censurabili e ignobilmente nostalgiche apologie del passato. Ma, limitandomi a parlare di me, e sulla base dei ricordi che sono la loro parte partigiani e selettivi, confesso di avere avuto un’infanzia non dico felice, ma sicuramente varia, ricca e intensa. La scuola elementare che frequentavo era ospitata dentro uno stanzone soprastante l’osteria Paganello, ai piedi della collina su cui si inerpicava il paese, e ciascuno di noi bambini era tenuto la mattina a portare un ciocco di legna per la stufa che ardendo ci impediva di congelare. E la maestra Emma, che ogni mattina arrivava da Vicenza dopo un paio d’ore di mezzi pubblici e bicicletta, ed era sempre entusiasta e dinamicamente proattiva, era sicuramente afflitta da un morbo che poi attraverso Max Weber avrei scoperto chiamarsi Beruf,  stigma tipico di quelle persone che uniscono nel loro lavoro la competenza di una professionalità esigente e l’impeto appassionato della vocazione. E ora so con certezza che di lei io allora ero innamorato, e che di lei qualcosa di buono mi è sicuramente rimasto. Ma credo che un po’ anche lei lo fosse di me, se alla fine della quinta elementare mi invitò a casa sua a Vicenza, e poi ad assistere insieme a uno spettacolo del circo. Certo, era maestra unica, come auspica oggi la povera Gelmini: ma faceva per tre. Come mia madre, d’altronde. 

I ragazzini di oggi, tra televisione, internet, cellulare e videogiochi, sono sottoposti a un trattamento come di chi sta chiuso sigillato dentro un alveolo  per succhiare e sperimentare sempre nuovi linguaggi e le mirabolanti invenzioni di questi nostri straordinari tempi. Io auguro loro di tornare a trovare il modo per gustarsi qualche gioco collettivo che assomigli anche soltanto vagamente a quelli tra le mucche ruminanti delle stalle di paese dei nostri tempi. E di poter salire, di soppiatto, con qualche bambino e bambina dei più affidabili, sul fienile soprastante dove inquattarsi per dedicarsi indisturbati alle migliori scoperte e perlustrazioni di cui abbia ricordo nella mia non così breve vita. Perché, diciamocelo pure, per i bambini e tra i bambini, quale gioco più affascinante, quale Super Nintendo DS (Diletto Supremo?) se non quello della scoperta delle stupefacenti possibilità e facoltà  di cui è dotato quel meraviglioso e sempre nuovo prodigio che è il corpo umano?

Gian Carlo Marchesini