Forte l’Associazione per il Rinnovamento della Sinistra! 

Al Centro Congressi Cavour, una soleggiata domenica mattina di metà febbraio spazzata dalla tramontana, in 30 ultrasessantenni riuniti in una sala di 200 posti, le migliori teste pensanti in circolazione con ottime relazioni e interventi (Guido Viale, Francesco Garibaldo, Paolo Cacciari, Paul Ginsborg, Gianni Rinaldini, Aldo Tortorella, ecc. ecc.) sono in realtà una pattuglia di docenti in assenza totale di discepoli e discenti (tranne forse il sottoscritto che infatti prende diligentemente appunti). L’aria, a voler essere malgrado tutto ottimisti, è un po’ quella degli apostoli degli inizi del cristianesimo che si riunivano nelle catacombe: ma qui neanche banditi e perseguitati, semplicemente ignorati. Ha un bel protestare don Roberto Sardelli che l’altro ieri, alla presentazione del documento “Un nuovo percorso della politica”, prodotto dal gruppo che con lui da quarant’anni si impegna a cercare di risolvere gli immani problemi delle periferie romane, non era presente nessun organo di stampa, quelli della Sinistra inclusi. Ma qui, al Centro Congressi Cavour, a un incontro sulla necessità di un rinnovamento della Sinistra, non solo manca la stampa – il solo Gabriele Polo, direttore de il manifesto, escluso – manca proprio qualsiasi traccia di pubblico interessato. Ci sono solo i relatori e gli esperti del ramo che si avvicendano sul palco per gli interventi. Il clima è un po’ quello tetro e totalmente privo di sex appeal dell’incesto tra parenti ragnatelosi e un po’ decrepiti. Ma a che serve tentare di rinnovarsi a una Sinistra rimasta orba di classe e di operai, di giovani e popolo? Siamo al Centro Congressi della Capitale, o sul ponte del Titanic che affonda mentre l’orchestrina dei maestri suonatori si esibisce nelle sue rincuoranti marcette? Qui sembriamo alla foto di gruppo dei vecchioni smaniosi di contemplare le grazie della bella Susanna al bagno. Solo che la Susanna/Sinistra, oggetto di tante concupiscenze e brame, nel bagno del Centro Congressi Cavour non c’é. Ci fosse ancora in giro Luis Bunuel, questo sarebbe soggetto adatto a uno dei suoi film. Io gli suggerirei anche il titolo: Quell’oscuro oggetto del desiderio. (Mi viene un dubbio. Non è per caso che l’ha già realizzato?)

Ma, sapete, io non mi arrendo facilmente. Mi sono letto attentamente il documento di don Sardelli e sodali, intitolato “Un nuovo percorso della politica”, e, avendolo trovato molto interessante, mi permetto di farvene qui, per punti e spunti, un qualche riassunto.

L’attuale quadro politico ha esaurito la sua funzione storica. Tentare di resuscitarlo significa agitarsi e sprofondare nelle sabbie mobili.

I cittadini, nel loro desiderio di partecipare fino alla fase decisionale, sono stati espropriati dai partiti. Ciò ha determinato l’esodo massiccio dei cittadini dalla politica. 

I vertici dei partiti, privi dell’alimento critico della partecipazione e del confronto, sono prigionieri di un delirio di onnipotenza, hanno monopolizzato la decisione, chiedono semplicemente di firmare, a ogni elezione, una delega.

Ma la democrazia si ha soltanto quando i rappresentanti si mettono a disposizione dei rappresentati, e insieme elaborano quei meccanismi necessari perché la rappresentanza non si isoli nella autoreferenzialità, ma si lasci nutrire, correggere, controllare dai cittadini, unici depositari della sovranità.

La politica è un servizio che richiede impegno, disinteresse, gratuità, competenza, onestà, credibilità, generosità.

Fondamento dell’agire politico sono giustizia ed equità. Il mito del progresso e della continua crescita economica non solo non sono in grado di alimentare il nostro grado di civiltà, ma, interpretati in maniera unilaterale e assolutistica, hanno contribuito a determinare l’attuale collasso economico.

In presenza delle trasformazioni da cui siamo stati investiti, occorre ripensare la nostra società e la nostra politica.

Non è più accettabile che il lavoro abbia una quota di remunerazione così bassa.

Non esiste alcun mercato dalle leggi intangibili.

E’ la globalizzazione capitalistica ad avere riversato i costi della sua crisi sui salari, sul lavoro, sui paesi poveri, accentuando lo squilibrio di una ricchezza già iniquamente distribuita.

Occorre ripensare il concetto stesso di lavoro.

 L’impresa capitalistica utilizza i canali della globalizzazione per impiantare le sue attività là dove i sistemi politici la favoriscono e là dove la manodopera è a basso costo e non ha tutela legislativa. A questa tendenza va contrapposta la scelta di sistemi produttivi legati al territorio e alle comunità locali, utilizzando il potenziale produttivo e i saperi esistenti sul territorio, da cui partire per riorientare i mercati, costruire sistemi produttivi solidali e nuove forme di organizzazioni del lavoro e di sviluppo della comunità.

La critica ai modelli di sviluppo che privilegiano prodotti e servizi improduttivi se non distruttivi, come l’industria bellica, la cementificazione e l’urbanizzazione devastatrice del territorio, deve diventare un discrimine che riqualifica la funzione sociale del lavoro e il suo riorientamento verso la produzione di beni utili, nel rispetto dei beni comuni fondamentali come il suolo, l’acqua, l’energia, la salute, ecc.

La cultura non nasce nel chiuso di qualche studiolo o dal cervello di illuminati progressisti, ma da un contesto che favorisce e promuove la dignità degli esseri umani e il riscatto sociale. E’ dalla cultura che nascono le interpretazioni di fatti, la capacità di essere artefici e attori degli eventi, il desiderio della conoscenza e del cambiamento. Spoglia della responsabilità sociale, l’apparente libertà del cittadino si riveste di individualismo e di narcisismo e perde di vista l’altro.

La città non è un oggetto di consumo, ma un bene comune in cui convivere, luogo che unisce, non che divide.

Avere realmente cura dell’ambiente significa essere consapevoli che il grido della terra e il grido dei poveri sono indissolubilmente legati.

Pretendere di modernizzare le città attraverso l’eliminazione del conflitto sociale si è dimostrato un fallimento. Così come assumere il Pil come parametro di sviluppo feticcio ha prodotto una crescita insana.

E’ aumentato il Pil, ma la ricchezza prodotta è  andata in larghissima parte agli operatori immobiliari finanziari, agli albergatori e ai costruttori. 

Trasformare i luoghi in suolo edificabile significa ridurre i luoghi di esperienze, di pratiche, di comunità, a spazio indifferenziato e valutabile solo in funzione della rendita che esso è in grado di produrre. L’effetto è quello di uno sradicamento inteso come recisione del legame profondo tra persone e gruppi sociali e luoghi.

Il problema dell’uso del territorio deve essere rimesso al centro della discussione pubblica. Non può essere oggetto di appropriazione dei più forti, ma un bene comune che appartiene a tutti e deve essere usato a beneficio della collettività.

La supremazia dell’economia sulla politica produce il trionfo della competizione sulla solidarietà. Ma se la competizione porta i più forti a vincere, dove vanno a finire le masse degli sconfitti?

La differenza deve diventare un valore positivo, non una minaccia.

L’aria della città deve rendere liberi, non far morire in solitudine e inquinati.

La casa non può essere assillo economico principale delle persone. Va interamente rivista la politica della proprietà della casa come unica forma di garanzia dell’abitare.

Bisogna fare società, costruire solidarietà.

Occorre sviluppare il meccanismo di ri-conoscimento.

Una città senza relazioni, senza racconti, è una città di corpi senza più parole, di case isolate e blindate.

Bisogna favorire accoglienza all’Altro, per essere insieme in uno spazio pubblico condiviso.

Gian Carlo Marchesini